La cecità costituisce da sempre uno degli snodi simbolici più ricorrenti nella drammaturgia occidentale. Non solo nella tragedia classica (basti pensare alla figura di Edipo), ma anche in Shakespeare, nel repertorio rinascimentale e barocco, nei simbolisti, in Beckett, Pinter. Di solito il pubblico è abituato ad accostarvisi «guardandola», constatandola con lo sguardo, appunto perché il teatro è - etimologicamente - un luogo per «vedere».
E invece Andrea De Rosa, raffinato regista non nuovo a ricerche espressive di stampo percettivo, nella sua intensa lettura della pièce Molly Sweeney dellirlandese Brian Friel, estende la menomazione della protagonista, una donna ultraquarantenne cieca sin da piccola, alla platea.
A chi, cioè, è venuto lì per guardare. La deficienza sensoriale di Molly (una toccante Valentina Sperlì) diventa così permeabile: esperienza percettiva comune e condivisa. Facendo leva su unidea se vogliamo semplice (in quanto suggerita proprio dal testo) ma assolutamente geniale, il regista oscura la sala del Valle per buona mezzora e avvolge gli spettatori in un ambiente acustico dove il passato della donna, gli odori dei fiori annusati da bambina, i suoni della memoria, la musica, le parole del padre («non ti perdi niente!»), quelle di suo marito Frank e del medico-chirurgo Rice (egregiamente interpretati da Leonardo Capuano e Umberto Orsini) compongono, tutti insieme, lo stato sensoriale di una cecità assoluta. Cecità che poi, nella seconda parte dello spettacolo, viene contraddetta, illuminata, convertita in una guarigione tanto miracolosa quanto rinnegabile.
Adesso gli attori non camminano più nelloscurità della sala ma recitano sul palcoscenico, avvolti in una penombra che sfuma i contorni della realtà, intenti a evocare, ognuno seguendo una propria partitura di monologhi, questa complessa vicenda umana ed emotiva (tra laltro ispirata al caso clinico descritto da Oliver Sachs in To see and not to see).
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