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Buon centenario, Italia terra di santi, eroi e ct

«L’Italia ha vinto il campionato del mondo. Lo ha vinto passando per una strada in tutto conforme a quella dovuta forzatamente seguire nei quarti di finale e nelle semifinali: quella dell’incontro tipo combattimento. Tanto ardente, tanto accanito, questo combattimento da sfiancare metà degli uomini in campo e da rendere necessari i tempi supplementari per determinare il risultato... Si dica quello che si vuole: nessuna cosa supera al mondo la soddisfazione del dovere compiuto con coscienza, con fede, con caparbietà, anche se necessario, con studio, con prudenza, con successo. È una soddisfazione profonda, intima, che compensa di tutto». Così scriveva un giornalista. Così scriveva un allenatore. Così scriveva Vittorio Pozzo, commissario tecnico della nazionale italiana. Fu quella una bella epoca, olimpica e mondiale, tre titoli racchiusi e vissuti prima della guerra, fu quello un passaggio illustre, storico, del secolo calcistico italiano.
Prima dell’era dorata di Vittorio Pozzo, furono metà di mille gli eroi dell’avventura, addirittura in sette nella commissione tecnica, pure con un arbitro british, Goodley, fra loro, prima della partita con la Francia nel 1910, ma siamo tra i pionieri. Venne il momento di Augusto Rangone, dimenticato dai più. Può considerarsi il primo ct della nazionale, vero responsabile tecnico in varie esperienze con altri sodali alla guida della squadra, Umberto Meazza fondatore, Galletti, Agostini, Baccani, Milano, Argento. Rangone fu il primo a convocare un oriundo, l’argentino Libonatti, e, quando concluse la carriera, prese a scrivere per la Gazzetta del Popolo e il Tuttosport.
Il giornalismo era una stazione fascinosa. Lo ribadì l’erede di Rangone: Pozzo fu il primo a credere nella filosofia del gruppo e della squadra, era un uomo di calcio e di giornalismo, era stato impiegato alla Pirelli, era stato capitano degli alpini durante la Grande guerra, frequentava cinque lingue, era un italiano già mondiale per questo. Gli azzurri salutavano romanamente ma non tutti, gli azzurri fumavano e andavano al tabarin, ma non tutti, gli azzurri avevano la fuoriserie, tutti, e la brillantina a lucidare i capelli nerissimi.
La guerra bruciò vite e spense il football, quando ripartimmo fu il grande Torino a dare nerbo alla nazionale, addirittura dieci uomini in campo nel ’47 contro l’Ungheria, fuori il solo Valerio Bacigalupo sostituito dallo juventino Lucidio Sentimenti IV detto Cochi. Da dimenticare il mandato di Foni che ci lascia a casa dal mondiale del ’58 per poi emigrare in Svizzera. Erano anni confusi, l’Italia di tutti e di nessuno, l’oriundo diventò un capriccio, venne il tempo di Sivori, di Maschio, di Lojacono, di Angelo Benedicto Sormani, anche di Helenio Herrera in panchina, venne la Corea con cento mozziconi di sigaretta davanti alla panchina di Topolino Fabbri a Middlesbrough, venne Uccio Valcareggi che diceva: «Mazzola e Rivera hanno fatto la sua partita», vennero i sei minuti di Gianni, vennero i pomodori, venne il vaffa di Chinaglia, il gol di Capello a Wembley, venne Fuffo Bernardini, il dottore con il Borsalino in testa, venne il Vecio e fu mondiale con la pipa sua, di Enzo Bearzot di Aiello, e di Pertini; venne Vicini e poi furono altri, Maldini e Zoff, Trapattoni e Sacchi, Donadoni e Lippi un elenco non alfabetico, non cronologico ma una giostra non sempre illuminata e divertente, tra acque benedette e insulti vari. Cento anni non sono nulla, quando arriva un mondiale. Cento anni sono tutto, quando contiamo i trofei. Oggi è festa, l’Italia non è vecchia, il secolo è passato sugli almanacchi.

Lo spero.

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