Bush agli americani: «Sull’Irak restiamo uniti se vogliamo la vittoria»

Discorso ai militari del presidente, che evita di parlare delle trattative con i ribelli. Un generale: la soluzione non sarà militare, ma politica

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

«Una chiara strada verso la vittoria» esiste in Irak e alla vittoria si arriverà se il popolo americano saprà «conservare la propria risolutezza». Lo ha ribadito George Bush in un discorso atteso per la coincidenza con svolte molto importanti nel Medio Oriente, ma da un podio evidentemente non fatto per complicati annunci politici. Il presidente ha parlato a qualche centinaio di militari nella base di Fort Bragg in North Carolina e l’occasione gliel’ha fornita l’anniversario del trasferimento formale dei poteri a Bagdad dall’amministrazione militare Usa a un organo civile iracheno. Egli non poteva dunque che tracciare un bilancio positivo, sia dato il tipo dei suoi ascoltatori sia in vista del fine che egli si proponeva, quello di «ricaricare» il morale degli americani, che a poco a poco si stanno stancando di quella guerra.
Dunque Bush ha sottolineato i progressi compiuti in questi dodici mesi nonostante le enormi difficoltà, una capacità di resistenza degli insorti superiore ad ogni previsione e un bilancio conseguentemente sempre più grave in vite umane. Anche per questo, ha ribadito, gli Stati Uniti non possono permettere che una preoccupazione comprensibile per questi sviluppi sul terreno impedisca di «completare l’opera». In senso «tecnico» innanzitutto: che è quello che Bush ha scelto. Egli ha parlato in termini molto specifici del programma di armare, addestrare ed equipaggiare le forze di sicurezza in Irak in modo da «permettere agli iracheni di difendersi da soli mentre fanno progressi sul piano politico, scrivono una nuova Costituzione e mettono in piedi una democrazia stabile. I terroristi sono stati in grado di infliggere grandi sofferenze e tremendi sacrifici, ma la causa per cui siamo in Irak è importante e stiamo facendo progressi».
Solo in questo quadro Bush ha accennato, e brevemente, alla «novità» in corso e cioè ai negoziati con alcune fra le principali organizzazioni dedite alla lotta armata. Era stato chiaro anche per lui, poche ore prima, il generale Casey, comandante in capo delle forze Usa sul terreno: «La soluzione alla fine non sarà militare ma politica». Né Bush ha fatto propria la recente predizione del vicepresidente Cheney che gli insorti «sono con l’acqua alla gola», né quella esposta da Condoleezza Rice alla conferenza sull’Irak a Bruxelles che il successo militare «sarà la campana a morto per il terrorismo anche altrove».
Un tale ottimismo non è più tanto diffuso in America. Gli ultimi sondaggi rivelano che meno della metà degli americani crede che una vittoria militare in Irak non farebbe granché per indebolire il terrorismo nel mondo. Una maggioranza è inoltre convinta che i progressi compiuti non siano sufficienti e sei interpellati su dieci dubitano che fra un altro anno il nuovo regime di Bagdad sarà consolidato in misura soddisfacente. Infine la maggioranza ritiene che la guerra sia stata un errore e che gli Stati Uniti siano «impantanati» in Irak come lo furono a suo tempo in Vietnam. Tuttavia è ancora nettamente minoritaria la richiesta di un ritiro delle truppe. È desiderabile una loro diminuzione, ma graduale.
In questa fase delicata Bush è stato alla larga dai dettagli, in particolare dalla questione che si sta affacciando se e in che misura le trattative con gli insorti dovranno portare a una amnistia per gran parte dei funzionari e dei collaboratori di Saddam Hussein e sulla distinzione, già accettata dai comandi militari, tra i terroristi e «coloro che ci combattono perché contrari alla nostra presenza in Irak».


Di sfuggita, infine, gli accenni agli sviluppi preoccupanti nel vicino Iran dopo la vittoria degli integralisti e le prime dichiarazioni del nuovo presidente: «Possiamo benissimo fare a meno di un rapporto con gli Stati Uniti» e «Non odiamo gli americani, ma esigiamo che ci rispettino». Il che significa in primo luogo che permettano a Teheran di andare avanti con il suo programma nucleare.

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