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Bush blocca la grande offensiva di Olmert

Altri 110 razzi di Hezbollah sulla Galilea: muoiono mamma araba e il suo bimbo

Gian Micalessin

da Kiryat Shmona

Ora si sa, non è stato un mercoledì da leoni. Doveva essere la giornata delle grande decisioni, del grande salto in avanti fino al fiume Litani, il primo passo verso la vittoria finale. Invece è stato un mercoledì di esitazioni, lutti, passi falsi. E alla fine tutto si è bloccato. L’offensiva è rimandata in attesa di una decisione del Consiglio di Sicurezza capace di garantire un cessate il fuoco. «Dobbiamo considerare tutte le opzioni», spiega il ministro della Difesa Amir Peretz durante una visita al Comando settentrionale in compagnia del capo di stato maggiore Dan Halutz. «Una volta dato il via alla missione dobbiamo poter guardare negli occhi padri e madri dei nostri soldati e poter dire che abbiamo fatto tutto il possibile per evitarlo», spiega lo stesso ministro della Difesa che solo qualche giorno fa sembrava impaziente di raggiungere il Litani.
Dietro l’improvviso ripensamento sembra esserci la lunga mano dell’alleato americano. «Mercoledì notte era tutto pronto. Avevamo quarantamila uomini ammassati al confine, avevamo incominciato a muoverci a mezzanotte, ma non appena varcata la frontiera una telefonata di Washington ha bloccato tutto. Ci hanno chiesto di attendere la conclusione della trattativa in corso al Palazzo di Vetro», rivela al Giornale un alto ufficiale di Tsahal. La telefonata, secondo altre indiscrezioni, arriva direttamente nell’ufficio di Olmert e suona come un richiamo a rispettare gli impegni assunti poche ore prima. Mercoledì notte i motori dei carri armati dovevano, in effetti, restar spenti. Durante la riunione del Gabinetto di sicurezza della mattina Olmert risponde a una chiamata di Condoleezza Rice, promette di attendere i risultati del negoziato al Palazzo di Vetro. A Olmert l’accordo non dispiace. In fondo l’idea di spedire 40mila uomini nel pantano libanese e di sacrificarne qualche centinaio per arrivare al Litani non lo appassiona molto. Se ci fosse una soluzione politica a portata di mano preferirebbe aggrapparsi a quella, rimandare l’offensiva di almeno qualche giorno. Ma in guerra impegni e promesse devono fare i conti con le tragedie quotidiane. Quella di mercoledì si consuma tra mezzogiorno e la sera.
Mentre i ministri si alzano e lasciano il Gabinetto di Sicurezza ad Ayt al Shaab , un villaggio nel settore centrale del confine, un razzo anticarro decapita un Merkava, uccide i quattro riservisti dell’equipaggio. In serata un missile uccide altri nove soldati trincerati in una casa nel villaggio di Debel a nord ovest di Beit Jbeil. A fine serata i morti sono quindici, la giornata più dura per Tsahal in quattro settimane di guerra. Le perdite non vengono annunciate fino a tarda notte. Intanto i generali scalpitano, chiedono di poter dare il via ai piani, di riscattare quell’inutile stillicidio di vite sacrificate per operazioni a ridosso del confine incapaci di garantire la disfatta di Hezbollah.
Alle dieci di sera l’offensiva è pronta a partire. Le artiglierie battono il fronte libanese, i carri armati si muovono in lunghe colonne. Tre ore dopo la telefonata americana congela tutto. Prosegue solo un’avanguardia diretta verso la città di Marjaayoun, la città cristiana dove Tsahal teneva il suo comando centrale durante i lunghissimi anni dell’occupazione del Libano. Situata a due chilometri dalla riva orientale del Litani Marjaayoun è fondamentale per tagliare i rifornimenti in arrivo dalla valle della Bekaa. I soldati israeliani sfondano le posizioni del Partito di Dio, ma si ritrovano comunque al centro di un’altra battaglia durissima. Il primo soldato cade all’alba e per tutta la giornata circolano voci di altre cinque morti ancora coperte dalla censura militare. Nel frattempo la marina israeliana colpisce la marina di Beirut e un lancio di volantini annuncia nuovi bombardamenti sui quartieri sud. Gli avvisi lanciati sulla città di Tiro promettono invece di colpire qualsiasi veicolo in movimento verso nord o sud.
Sul versante israeliano del confine i missili non smettono di colpire il nord. Ne cadono almeno 110. Il più cieco e crudele colpisce ancora una volta una famiglia araba del villaggio di Dir al Assad, dilania un bimbo di cinque anni e la madre 26enne.

Tra le macerie dell’abitazione distrutta le squadre di soccorso estraggono altri undici feriti tra cui il fratellino di tre anni del bimbo ucciso.

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