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Bush ha già vinto la guerra in Irak Ma a Washington

George Bush sta vincendo la guerra in Irak. Non sui campi di battaglia di così incerto disegno e così ricchi di insidie, non negli acquitrini del sud, nei deserti dell’ovest, o nei canyon della guerriglia di Bagdad: la sta vincendo sul fronte interno, che in conflitti asimmetrici come questo è poi quasi sempre quello decisivo. Da alcune settimane (e del resto l’avevamo preannunciato il mese scorso) è in corso una svolta complessa nelle sue origini, ambigua nei suoi svolgimenti e nei suoi traguardi, ma innegabile nei risultati: il principale dei quali non è la annunciata diminuzione delle vite umane che quotidianamente si spengono nell’antica Mesopotamia, è già di più nei segnali, questi crescenti, di capovolgimenti di fronte non più del tutto effimeri nel triangolo bellico americani-sunniti-sciiti, ed è evidente nella tregua che è «scoppiata» nel mondo politico di Washington. Cinque, sei settimane fa non si parlava d’altro che dell’Irak e un presidente messo alle corde parava i colpi quasi soltanto con delle promesse e con dei conteggi di insufficiente credibilità ed impatto. L’opposizione democratica firmava un giorno sì e un giorno no una nuova «risoluzione» al Senato o alla Camera, in cui si voleva vietare l’afflusso di rinforzi, stringere i tempi per un inizio dei ritiri, si metteva un «tetto» agli stanziamenti militari, si fissavano calendari per il «tutti a casa». E un giorno sì e un giorno no influenti senatori repubblicani facevano sapere di essere pronti a saltare il fosso, a schierarsi con i democratici, a far passare con la defezione le loro leggi.
Adesso, quasi di colpo in apparenza, il Congresso si è messo in vacanza per quanto riguarda l’Irak. Anzi, non è mai tornato dalle vacanze. Si continua a proporre e a votare, ma rassegnati a sfornare documenti futili, nella disattenzione generale. Per la prima volta in oltre quattro anni, dal giorno in cui George Bush incautamente annunciò la fine vittoriosa del conflitto, l’Irak è sparito dalle prime pagine dei quotidiani, dall’apertura dei telegiornali, dai bollettini della Cnn (o vi è presente soltanto con denunce a latere, anche gravi, come le rivelazioni sul debordare degli «eserciti privati»). È sparito, soprattutto, dai discorsi elettorali. I concorrenti alla candidatura democratica si scavalcavano a vicenda, ancora in luglio e in agosto, nel dichiarare «guerra alla guerra» e nel proporre strategie alternative, in toni che ricordavano il lungo tormentone di quarant’anni fa a proposito del Vietnam. Adesso eccoli di fronte alle telecamere nei dibattiti per i primi showdown della campagna presidenziale. Ritiro dall’Irak? Chiedono cronisti di colpo spaesati, a Hillary Clinton, a Barak Obama, a John Edwards, i big in un campo che comprende una dozzina di candidati. E Edwards non fa date, Obama parla di cautela, Hillary addirittura dà per scontato che la presenza militare americana in Irak durerà almeno fino al 2013, cioè a dieci anni dopo l’inizio della guerra. A parlare di ritiro sono rimasti solo i candidati «minori», quelli indietro nei sondaggi, i Biden e i Dodd, che sono anche gli unici a parlare soprattutto di politica estera. La base del Partito democratico, gli attivisti, sono con loro e potrebbero convogliare su uno di loro un voto di protesta nell’Iowa o nel New Hampshire. Ma su base nazionale le cifre li relegano nell’oscurità e dicono anche, anzi soprattutto, che Hillary Clinton ha in questo momento in tasca la nomination democratica e si comporta e agisce e parla e tace come se la maratona per la nomination che si aprirà in gennaio fosse già conclusa e lei, Hillary, avesse alle spalle non soltanto l’inimitabile popolarità del marito ex presidente ma anche e soprattutto il «vento della storia». I «radicali» possono cercare di imbarazzarla ma non riescono a scuoterla, lei pensa già alle elezioni generali, alla battaglia dell’autunno 2008 contro il candidato repubblicano. Chiunque questi sia non sconfesserà Bush e la senatrice di New York si preoccupa già di contendere loro il centro dell’arena politica americana, dando per scontato che la sinistra «liberal», che lei delude, non potrà che votare per lei. L’Irak ha smesso di colpo di essere il tema centrale della campagna elettorale.
E sono già pronti i temi sostitutivi. Dopo aver mostrato per anni scarso interesse e idee confuse, i democratici recuperano come argomenti centrali l’assalto alla politica economica di Bush, dalla debolezza del dollaro alle misure dei deficit, a crisi di sicuro impatto emotivo come la carente copertura sanitaria, temi di sicuro effetto in una gara per la Casa Bianca, ma soprattutto nelle elezioni per il Congresso. L’opposizione vi ha già la maggioranza e ha molte probabilità, soprattutto in Senato, di ingigantirla. Invece la Casa Bianca sembra scivolare via, addirittura non essere più a portata di mano. Come se fosse proprio l’Irak a gonfiare le vele a Bush.

Una guerra che rimane impopolare, ma che scivola nell’ombra anche perché al centro dell’attenzione c’è una nuova guerra possibile, o addirittura probabile: dall’altra parte dello Shatt El Arab, dall’Irak all’Iran.
Alberto Pasolini Zanelli

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