Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Si è visto subito, o almeno sono bastati pochi minuti del suo discorso, per convincersi che in George Bush c’era qualcosa di diverso nel suo quinto messaggio sullo stato dell’Unione. Non erano cambiate le idee, né le impostazioni generali, né il carattere dell’uomo. Ma si era ritratto il sorriso mentre si era accentuata la determinazione. L’uomo è ancora duro, forte e combattivo, ma è meno trionfalista. Non solo nel modo di fare, nella diminuzione dei sorrisi e nell’espressione più sobria, ma anche nella sostanza delle sue argomentazioni, delle sue priorità, del suo discorso agli americani. E anche al resto del mondo, naturalmente. Sui temi essenziali l’uomo che ha parlato dalla Casa Bianca non ha compiuto svolte, ceduto terreno, cambiato direzione. Non rinuncia, ma ha anzi riaffermato che la guerra al terrore resta la priorità per gli Stati Uniti e che l’instaurazione di regimi democratici nel resto del pianeta, in particolare del Medio Oriente, è il sistema e l’arma più sicura per la difesa e la sicurezza dei suoi concittadini. Dunque niente date per il ritiro dall’Irak (anche se Bush ha aperto la porta come non mai prima a un rimpatrio graduale di parte delle truppe), anche perché sarebbe un segno di minore fiducia nella causa, appunto, della democratizzazione in quella parte del mondo. In un momento in cui l’America si trova di fronte a un impasse difficile, da quando le elezioni ragionevolmente libere, fortemente volute da Washington in diversi Paesi arabo-musulmani, hanno dato risultati spiacevoli, confermando i timori dei conservatori più tradizionali a Washington e altrove. L’amministrazione è stata invece apparentemente colta di sorpresa, soprattutto dalla vittoria di Hamas, che Condoleezza Rice ha francamente ammesso che «nessuno se l’aspettava».
Bush non può abbandonare Israele di fronte a una minaccia accresciuta, né prendere iniziative per annullare l’esito del voto. Dunque ne ha parlato il meno possibile, riconoscendo implicitamente il governo degli estremisti ma al contempo condizionando al loro abbandono della violenza la continuazione degli aiuti economici e, ed è il punto essenziale, il riconoscimento della Palestina come Stato. «Hamas deve essere un partner nel processo di pace», ha ripetuto ieri in un comizio il presidente, perciò deve rinunciare alla violenza e riconoscere Israele altrimenti «sarà difficile la nascita di uno Stato indipendente» palestinese.
Sull’Iran Bush ha rilanciato l’allarme per i progetti nucleari, ha sottolineato l’urgenza di affrontare il problema, ma si è rivolto «alle nazioni del mondo», evitando di ricadere nell’unilateralismo manifestato a proposito dell’Irak. In ogni caso, spiega il leader della Casa Bianca, il mondo non deve permettere che «una nazione tenuta in ostaggio da una piccola élite clericale» abbia l’atomica. L’accenno a Teheran è stato in una certa misura «annacquato» mettendo l’Iran in un mazzetto assieme alla Corea del Nord (altrettanto pericolosa) ma anche con altre dittature come il Myanmar (l’ex Birmania) e lo Zimbabwe che non rappresentano pericoli di questo tipo. Nessun accenno a Cuba, nessuna polemica nei confronti della sinistra latinoamericana. La politica estera Usa come Bush la ridefinisce è cementata da un concetto vecchio e da una parola nuova per lui: il no all’isolazionismo»: «In un momento di dura prova come questo non possiamo trovare sicurezza nell’abbandonare i nostri impegni e nel ritirarci dentro le nostre frontiere».
Un tema che è stato il filo rosso dell’intero messaggio e che è destinato a esserlo anche nella campagna elettorale per il Congresso che sta per aprirsi e che presenta molti pericoli per il partito di Bush, indietro in tutti i sondaggi mentre la fiducia nel presidente è tornata a cadere - almeno prima del discorso sullo stato dell’Unione - a minimi storici. In parte anche per le preoccupazioni sull’economia, soprattutto del deficit senza precedenti nella spesa pubblica, che ha costretto Bush, a mettere nel cassetto i piani più ambiziosi di riforma su cui i democratici invece possono permettersi di continuare a insistere.
La linea di difesa del presidente si arrocca dunque su questi due caposaldi: «loro» sono isolazionisti, «noi» siamo più fidati nella guerra al terrorismo e nel difendere la sicurezza dell’America. L’unico test in cui i sondaggi lo danno ancora nettamente avanti. E che potrebbe continuare a essere la sua carta vincente.
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