Bush licenzia Rumsfeld: «Ora cambiamo strada»

Giuseppe De Bellis

nostro inviato a New York

La giornata di George W. Bush comincia quando squilla il telefono. È Karl Rove: «Abbiamo perso». Il presidente si deve preparare al al discorso più difficile da quando è alla Casa Bianca. Quello della sconfitta. Non è abituato: per sei anni ha sempre sorriso il giorno dopo l'election day. Stavolta no: si presenta davanti alle tv alle 13, quando il candidato democratico del senatore del Montana ha appena dichiarato vittoria. Resta la Virginia, adesso. Ultima speranza per non perdere tutto. Ma i numeri non nascondono la batosta politica. Bush ha il volto tirato. Quello che deve dire lo dice subito: «Donald Rumsfeld si è dimesso da segretario alla Difesa. La decisione era già stata presa qualche tempo fa». Il siluro non fa meno male, però. Vuole solo chiarire che la richiesta di licenziamento di Rummy della nuova speaker della Camera Nancy Pelosi, non c'entra affatto. Però Rumsfeld è licenziato lo stesso. E per la la guerra in Irak. Il presidente non può confermare: «Ne parlavamo già da tempo. Non ho voluto annunciarla prima per non iniettare insicurezza negli ultimi giorni della campagna elettorale. Ma avevo già parlato con Rumsfeld della necessità di avere nuove prospettive sulla missione irachena. E anche lui era d'accordo. Insieme abbiamo deciso che era giunto il momento di accettare le sue dimissioni».
Parla del futuro. Fa un nome: «Robert Gates. Sono certo che l'ex direttore della Cia sarà in grado di offrire queste nuove prospettive - ha detto ancora il presidente - grazie alla sua esperienza manageriale. Restiamo impegnati per la vittoria. La sconfitta in Irak non è un'opzione. Le nostre truppe torneranno a casa solo quando la vittoria in Irak sarà completa. Quando il lavoro sarà finito».
Non ha neanche tanta voglia di stare troppo tempo sul palchetto diventato scomodo: «Per i democratici è stata una bella notte. Adesso bisogna superare le differenze per aiutare l'America a risolvere i suoi problemi. Gli americani vogliono che i partiti lavorino assieme per affrontare le sfide del futuro. Possiamo lanciare una nuova era di cooperazione. Dobbiamo lavorare assieme per i prossimi due anni». Non può nascondere l'amarezza. La pronuncia la parola: «Deluso». Riconosce la vittoria degli avversari: «Riconosco che molti americani hanno votato per certificare la loro insoddisfazione per la mancanza di progressi in Irak. Ho chiamato la presidente della Camera Nancy Pelosi. Gli ho fatto le mie congratulazioni per il suo successo». Adesso è a loro che parla. Ai democratici. Cerca una sponda: «Gli elettori vogliono che ci muoviamo in una nuova direzione e credo che si debba rispettare la loro volontà. Sono ovviamente dispiaciuto, ma ora occorre lavorare di comune accordo per guidare il Paese». La nuova direzione riguarda anche l'Irak: «Sono cambiate molte cose con queste elezioni, ma non cambiano le mie responsabilità principali: proteggere gli Usa dai pericoli. I nostri nemici non devono essere contenti di questa sconfitta. Noi andremo avanti. Parleremo con i nuovi deputati e senatori e ascolteremo le loro idee e la prossima settimana conosceremo i risultati del gruppo di studio guidato dall'ex segretario di Stato, James Baker». Piani e strategie. Spiega ancora, il presidente: «C'è bisogno di qualche aggiustamento nella tattica. Anche Rumsfeld ha capito che l'Irak non è una questione che si sta risolvendo in modo sufficientemente positivo e veloce. Insieme abbiamo valutato la situazione e abbiamo concordato il nuovo leader al Pentagono. Donald è un patriota che ha servito il suo Paese con onore e merito».
Da Rumsfeld a Cheney. C'è aria di smobilitazione: qualcuno vorrebbe che il presidente facesse fuori tutti quelli della sua amministrazione, evidentemente. Allora gli chiedono che cosa succederà adesso al vicepresidente tanto detestato dai democratici. Bush ha ancora fiducia in lui: «Sì, ne ho. E lui resterà al suo posto». È più sciolto, adesso. Dopo venti minuti di domande s'è tolto i due pesi maggiori: il licenziamento del capo del Pentagono e il riconoscimento della vittoria democratica.

Il presidente si distende per quello che può. Sa che nei prossimi due anni dovrà combattere ogni giorno con un parlamento contrario. Sarà un inferno: «Credevo che avremmo ottenuto buoni risultati. È la prova di quanto ne capisco».

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