Bush a Pechino: aprite le porte alla libertà

Le due potenze vicine sulla lotta contro il terrorismo islamico. Il capo della Casa Bianca prega in una chiesa

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Cina-America: un rapporto inedito, che si riflette nella complessità della missione di George Bush a Pechino, che fonde due storici viaggi in Estremo Oriente di altrettanti suoi predecessori alla Casa Bianca: quello di Richard Nixon che nel 1972 ruppe il ghiaccio fra due nemici e fece ripartire un rapporto quasi da zero e quello di George Bush padre nel 1986 a Tokio, che costituì il tentativo di armonizzare gli equilibri americani con la allora prorompente crescita economica del Giappone. George Bush jr. è arrivato in Cina con una agenda senza precedenti, così come senza precedenti è la natura del suo interlocutore. I suoi colloqui affrontano un contenzioso economico-commerciale paragonabile con l’esempio dato in quanto la Cina è il Giappone del ventunesimo secolo; ma anche un più generale e delicato intreccio di rapporti di potenza. A differenza del Giappone di allora, la Cina di oggi si sviluppa anche come una grande potenza militare, politica e diplomatica, con interessi globali e con un ruolo regionale molto intenso in Asia. È l’unico Paese a poter intaccare o in qualche modo restringere l’attuale fase in cui gli Stati Uniti sono non solo la potenza dominante ma l’unica grande potenza planetaria. Nuovi equilibri si affacciano ed è molto difficile combinarne gli aspetti e le sfaccettature.
L’opinione pubblica Usa si aspetta da Bush un linguaggio forte sul tema dei diritti umani, il presidente, pur sollecitando le autorità cinesi ad invitare il Papa e il Dalai Lama, ha preferito introdurre il discorso con un gesto simbolico: il primo posto in cui ha messo piede in territorio cinese è stato una chiesa protestante, evidentemente a sottolineare le perduranti inquietudini dell’Occidente per gli atteggiamenti persecutori di un regime nominalmente comunista nei confronti dei culti. Con diplomazia, però: il tempio in cui Bush è andato a pregare non appartiene a una setta dissidente bensì alla struttura religiosa approvata dal governo. Il discorso sui diritti umani nei dialoghi con il presidente Hu Jintao non può essere così nitido come quello pronunciato in proposito l’altro giorno a Kyoto, ma ne riprende l’argomento più «presentabile»: l’invito ad allargare il ruolo della libertà perché la libertà «conviene», soprattutto a un grande Paese in sviluppo. Similmente gli affari internazionali vengono affrontati in modo bilanciato: l’America ha riaffermato la propria attenzione a Taiwan, la Cina fa sapere che non riconoscerà una eventuale indipendenza dell’isola che considera parte integrante del territorio nazionale, ma che non ha alcuna fretta di ricorrere alla pressione militare. La lotta al terrorismo, particolarmente islamico, è uno dei punti su cui le idee e gli interessi sono più vicini.
Resta l’argomento centrale e cioè la proiezione in termini di potenza della ritrovata prosperità di un Paese di un miliardo e trecento milioni di abitanti. Una Cina unicamente commerciale, tipo Giappone degli anni Ottanta, è impensabile. Quando Deng Xiaoping ruppe con il maoismo e lo celebrò nel 1979 con un giro d’America in cui giunse ad indossare un cappello texano, egli visitò, fra l’altro, uno stabilimento della Ford ad Atlanta che da solo produceva più auto in un mese che non la Cina intera in un anno: ne uscivano 13mila, oggi sono più di 5 milioni. Anche dopo il lancio delle Quattro Modernizzazioni l’America e l’insieme dell’Occidente ne sottovalutarono le prospettive considerando le condizioni di partenza estremamente arretrate. Non era solo un fatto economico: si rifletteva anche sulla natura delle forze armate cinesi, inflazionate di numero e a corto di armi moderne. Oggi la crescita industriale ha avuto una «ricaduta» anche sul militare, il che allarma qualcuno in America (soprattutto il ministro della Difesa Rumsfeld) ma che non può essere arrestato.

Questa amministrazione Usa se ne rende conto e la sua politica sembra evolversi: da un «contenimento» della Cina con tutte le sfide implicite a una strategia più complessa che mira a regolare più che a impedire uno sviluppo inevitabile. Con tutte le sue conseguenze.

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