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Bush ripete per la terza volta: niente scambi di prigionieri

«Sono assolutamente d’accordo con Tony Blair: sulla vicenda degli ostaggi non vi possono essere quid pro quo». Parola di George Bush. Il presidente lo afferma prima in latino sfoggiando un «quid pro quo» traducibile come «una cosa in cambio di altre». Lo ripete in inglese escludendo «qualsiasi possibilità di scambi». I «quid pro quo» forse sono già troppi. Il primo si chiama Jalal Sharafi ed è un diplomatico dell’ambasciata iraniana di Bagdad rapito il 4 febbraio scorso. Sharafi è misteriosamente tornato in libertà lunedì sera, proprio mentre Teheran faceva intravedere la possibilità di una risoluzione pacifica della disputa.
Dietro il «mistero Sharafi» si delineano le ombre di almeno altri cinque possibili «quid pro quo» e le conseguenze di una fallimentare operazione segreta. Un’operazione pianificata da Washington per mettere le mani su Mohammed Jafari, numero due del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, e sul generale Minojahar Frouzanda, comandante dei servizi di sicurezza dei Guardiani della Rivoluzione. La mattina dell’11 gennaio scorso i due sono entrambi ad Erbil, nel Kurdistan iracheno, per incontrare il presidente iracheno Jalal Talabani e Massoud Barzani, presidente del governo regionale curdo. Quella mattina un commando delle forze speciali americane sbarca da un elicottero sul tetto del consolato iraniano di Erbil, fa irruzione nell’ufficio e cattura cinque diplomatici. Nei giorni successivi i cinque vengono indicati come alti ufficiali della Brigata Gerusalemme, l’unità dei pasdaran responsabile delle operazioni clandestine all’estero. Ma i veri obiettivi dell’incursione potrebbero essere stati i due capi della delegazione iraniana. «Quella mattina gli americani cercavano Jafari, erano convinti che fosse dentro il consolato – rivela al quotidiano inglese Independent Fuad Hussein, capo di Stato maggiore di Massoud Barzani, e Sadi Ahmed Pire, capo dell’ufficio di Talebani. Secondo i due alti funzionari curdi gli americani puntavano al colpo grosso e non alla semplice cattura di cinque diplomatici sospettati di aiutare gli insorti iracheni.
Le mire di Washington erano già state svelate, senza far nomi, dal ministro degli Esteri iraniano Manoucher Mottaki. «L’obiettivo degli americani era l’arresto di due alti funzionari della sicurezza iraniana», dichiarò il ministro in una nota divulgata dopo l’episodio di Erbil. Non a caso Washington accusa i pasdaran anche per la misteriosa incursione di fine gennaio in una base americana di Karbala conclusasi con l’uccisione, durante la fuga, dei militari americani presi in ostaggio. Quel raid sarebbe stata la prima fallita rappresaglia per ottenere il rilascio dei cinque e vendicare il tentato rapimento di Jafari e del generale Frouzanda. Il successivo inasprimento delle misure di sicurezza statunitensi avrebbe spinto i pasdaran a cambiare bersaglio e a prendere di mira gli alleati britannici.
In questa complessa vicenda di rappresaglie incrociate il primo «quid pro quo» sembra essersi concretizzato con la liberazione di Sharafi. Il diplomatico iraniano rapito a Bagdad il 4 febbraio scorso era stato prelevato da un gruppo di soldati con le divise del 36° Battaglione Commando, un’unità scelta irachena addestrata dalle forze speciali americane.

Non a caso un paio di responsabili del rapimento, catturati sul posto dalla polizia irachena, si volatilizzarono dopo il trasferimento al commissario centrale di Bagdad responsabile delle «indagini» sulla sparizione del diplomatico iraniano.

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