Il business non c’entra. Queste sono cifre di una società malata

«Non è né poco né tanto. In realtà questo è il mercato. Io però lavoro per un anno al Festival anche come direttore artistico». Così parlò Paolo Bonolis, riferendosi alla paccata di euri - un milione - che la Rai gli ha versato per fargli presentare - «Canta Valerio Sanzotta accompagnato dall’orchestra del maestro...» - il Festival di Sanremo. Eppure, solo qualche tempo fa il Bonolis ebbe anche a dire: «Io sono solo un conduttore, non distinguo un la dal sol. Mai pensato alla direzione artistica di Sanremo». Tant’è che per fare il lavoro che oggi Bonolis afferma essere il suo, la Rai ha dovuto ingaggiare Gianmarco Mazzi, uno che un la dal sol sa distinguerlo. Lavoro che oltre tutto non dura un anno, ma qualche mese appena (mica devono metter su, i due, il Festival di Bayreuth). Però, anche se le cose stessero come il Bonolis dà ad intendere (a proposito, sarà mica satira?), un milione di euri resta comunque una cifra spropositata e scandalosa.
Scandalosa e immeritata. Immeritata e ingiustificata. Come lo sono, uno per l’altro, i compensi a Fabio Fazio (2 milioni per quel semolino smorfiosetto e buonista di Che tempo che fa), Simona Ventura (2 milioni), il milione - oh, yes - a Vespa, i 684 mila a Michele Santoro e le raffiche di 500mila elargiti alle star di seconda e terza scelta dello spettacolo e del giornalismo. E non ci venissero raccontare le storie che i nababbi di via Teulada «portano pubblicità» o che «questo è il mercato». Se infatti i soldi in più che può «portare» un Bonolis - sempre che sia vero che li «porta» - servono per compensare il Bonolis medesimo e il suo ambaradam compreso il tipo che sa distinguere un la dal sol, allora è un cavolo tutt’uno. E il mercato sarà anche il mercato, ma non la vigna dei fessi, dove ogni uccello ci fa il nido.
A parte le frottole raccontate e che ci poteva evitare, non è con Paolo Bonolis che uno deve prendersela: lui ha sparato là una cifra, prendere o lasciare. E la Rai ha preso. Né si può pretendere dal Bonolis la pur tanto sbandierata coscienza civile che dovrebbe indurre, tempo di crisi acuta e di una decina di milioni abbondante di italiani sotto la soglia di povertà, come va raccontando il Censis, a moderare le pretese. Non sono questi i tempi e gli uomini alla Luigi Einaudi che ai pranzi del Quirinale divideva la pera a metà col suo vicino. Questa, come scrisse Flaiano, «è una Repubblica dalle pere indivise».
Ma la Rai? Il suo consiglio di amministrazione? Che esso sia consapevole dello scandalo dei supercompensi lo dimostra il tetto - 280mila euri - imposto alle retribuzioni dei dirigenti. Provvedimento degno di encomio, ma poi che fanno, tirano la cinghia, si fa per dire, per ricoprire d’oro i Bonolis, le Ventura e i Fazio? Qui non si tratta di fare del moralismo a un tanto al chilo, ma non ci son santi: per guadagnare quanto Paolo Bonolis busca in cinque o sei giorni sul palco del Festival di Sanremo, un professore di scuola media ci metterebbe sessant’anni.

E d’accordo che ciò che eventualmente si togliesse a Bonolis non andrebbe di sicuro nelle tasche del professore, ma anche stando così, la cosa fa schifo. Mettendo a nudo un Paese, una società malsana, irrispettosa. Ingiusta. E pensare che la Rai è un servizio pubblico...

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