Busta con bossolo e minacce all’Udc: «Salterete in aria come la Bhutto»

da Roma

Marini ha ricevuto l’incarico «finalizzato» del Quirinale, ed è già salito a colloquio con Bertinotti alla Camera, e poi a ricevere la benedizione di Prodi a Palazzo Chigi.
Nel frattempo, seduti sotto il gazebo fumatori nel cortile di Montecitorio, un gruppetto di deputati del Pd discute con il ministro Mussi di premi di maggioranza, liste, coalizioni e candidati premier: con il Porcellum conviene che il Pd vada solo, o che, come sostiene Mussi, si allei con la sinistra per ottenere più senatori? La discussione è appassionata. E dà per archiviato, prima ancora che inizi, il tentativo del presidente del Senato. «Certo, le consultazioni di Marini potrebbero durare qualche mese, sul modello belga...», scherza il ds Morri. «Sì, e il Wall Street Journal ha chiesto formalmente lo scioglimento non del Parlamento ma del Belgio tout court», ricorda Mussi. «Ma quali consultazioni, è chiaro che si vota e basta», taglia corto il ds toscano Nannicini. «Ad aprile - precisa il repubblicano Musi - mica siamo così scemi da regalare a Berlusconi il voto a giugno, così può eleggere il nuovo capo dello Stato con il prossimo Parlamento!».
All’altro capo del cortile, l’Udc Barbieri racconta: «A me molti parlamentari del centrosinistra raccontano che Marini ci proverà sul serio, anche con un pugno di voti: nessuno di loro vuole andare alle elezioni. Almeno non prima di ottobre», data fatidica di metà legislatura per la pensione dei neoeletti.
Marini ci prova o non ci prova, dunque? Nel centrosinistra, in verità, circolano scenari molto diversi. Il primo, che proviene dallo stesso entourage del presidente del Senato, dice che di «governicchi appesi a due voti di vantaggio» Marini non vuol sentire parlare. Per questo avrebbe resistito alle pressioni per un incarico «pieno», che lo avrebbe costretto a presentarsi comunque ad un incerto voto di fiducia. Pressioni che, secondo quel che raccontano ai piani alti del Prc, sarebbero state esercitate «dai veri registi del tentativo di far partire comunque un nuovo governo: D’Alema e il segretario generale onorario del Quirinale, Gaetano Gifuni», tandem ben sperimentato durante la presidenza Scalfaro e il «ribaltone» che portò al governo Dini.
Duplice l’obiettivo: provare a prendere la fiducia al Senato per qualche voto (compreso il suo) e fare un governo destinato a durare fino al 2009, facendo non solo le nomine ma anche una Finanziaria che redistribuisca risorse, risollevando l’immagine del centrosinistra ed evitando di regalare a Berlusconi «il nostro tesoretto». Nel frattempo, a Veltroni toccherebbe restare in panchina. Se invece la fiducia al Senato non ci fosse, sarebbe comunque Marini a gestire le elezioni (e le nomine) al posto di Prodi.
Ma il presidente del Senato non c’è stato, e ha voluto un mandato esplorativo: se durante le sue consultazioni, nei prossimi giorni, non emergerà «un dato politico nuovo», lui lo rimetterà. E il dato politico nuovo, si spiega, «non è certo il voto di Baccini, ma l’apertura di una forza politica». Qui gli scenari divergono ulteriormente: in casa dalemiana si pensa all’Udc. Su cui si riversa il «fortissimo pressing» di chi si schiera per non andare al voto, da Montezemolo ai sindacati passando per santa romana chiesa. E dalla Corte costituzionale, che ieri (guarda caso) ha motivato il sì al referendum elettorale, con dure critiche al Porcellum e le sue maggioranze variabili al Senato.
Ma Veltroni ieri ha indicato chiaramente che l’interlocutore è Berlusconi, non Casini, annunciando la disponibilità del Pd ad un «esecutivo a tempo», fino a giugno, che faccia o la legge elettorale (con Fi) o il referendum. E ricordando al Cavaliere che, altrimenti, il referendum se lo ritroverà lui per le mani nella prossima legislatura, e rischierà grosso per la «stabilità» della sua coalizione. «Comunque - ha concluso - noi non abbiamo paura delle elezioni».

Elezioni che rischiano di essere abbinate alle amministrative a Roma: si profila infatti un accordo bipartisan per evitare il commissariamento in 150 comuni italiani, i cui sindaci vorrebbero candidarsi alle politiche. In quel caso, spiegano dal loft, non ci sarà tempo per fare le primarie e per la Capitale si punterà su due nomi «che nessuno potrebbe discutere»: Bettini o Rutelli.

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