BUTTATE I CAVILLI FUORI DI CASA

Come spesso accade in Italia, dietro ogni rivoluzione c’è in agguato il rischio della restaurazione: e allora il piano casa che era partito come una esplosione di energia per rilanciare un’economia asfittica sembrava avere incontrato la muraglia infrangibile dei mille dottor Sottile, dei maestri della carta da bollo, di quelli che si esercitano a dire «Sì ma...».
Questo giornale non ha la minima intenzione di alimentare conflitti istituzionali, prevaricare poteri costituiti, mancare di rispetto alle istituzioni. Eppure in questi giorni più di una volta si è avuta l’impressione di sprofondare in una palude: chi chiedeva di limare un numero, chi di rivedere una percentuale, chi era pronto ad abbassare il ponte levatoio pur di tenersi abbarbicato al suo potere di veto, a quello spirito irresistibilmente radicato nell’immaginario italiano, che Guicciardini chiamava con una geniale sintesi «il particulare». Ora finalmente è stato raggiunto un accordo. Le regioni hanno 90 giorni per adeguarsi al decreto: non usino questi tre mesi per trovare nuovi cavilli ma per rendere davvero operativo il piano del governo. Non sono stati infatti i no a frenare il piano casa, ma paradossalmente i «Sì ma...». Non sono stati i «no», che continuano a rimanere minoritari: non è stato il «no» purista degli architetti, non è stata l’opposizione politica del Pd, e nemmeno l’altolà filologico delle soprintendenze. A tentare di fermare il progetto sono stati i blocchi di potere locali, la paura di alcuni presidenti di perdere parte delle loro competenze, il freno degli apparati. Così, tutta la scenetta del tira e molla, degli assensi condizionati, delle eccezioni normative, fa venire in mente quella meravigliosa storia di Asterix in cui l’eroe gallico supera undici prove di abilità e di forza, ma rischia di essere affondato solo dall’ultima, la più terribile: quella della burocrazia romana. Sono passati duemila anni e siamo ancora lì, alla burocrazia.
Ma ora anche i più ostinati sembrano aver capito che l’edilizia è la via che ci potrebbe portare fuori dal tunnel della crisi. Perciò di fronte alla grandezza di questi problemi, pare incredibile che tutto il dibattito per giorni sia stato bloccato da un estenuante minuetto procedurale, se lo strumento dovesse essere un decreto, un disegno di legge o chissà che. Il Popolo della libertà, nel momento più alto dei suoi consensi, elogiato dall’Osservatore romano, gratificato dai sondaggi che lo vedono ai massimi storici, ha oggi una grande possibilità. E ha il diritto e il dovere di portare a termine quello che ha promesso, se - come sembra - ha i numeri e il consenso per farlo: questa volta le regole della politica sono cambiate, non siamo più nel tempo della compravendita dei cammelli in Parlamento, negli anni in cui si mercanteggiava sugli zerovirgola in cambio di una poltrona o di una nomina. Il piano casa è forse il provvedimento più popolare fra quelli proposti fino ad oggi dal governo. Ed è forse anche il più vicino ai problemi della gente. Il più ingegnoso, se è vero che crea lavoro senza mettere in campo risorse pubbliche, il più utile, se è vero che parte dal bisogno primario e il più aderente allo spirito della prima parte della Costituzione che a parole tutti vogliono difendere.
Quello che deve essere ben chiaro è che la montagna non può partorire il topolino, che il cavillo non può uccidere l’intuizione. L’aggettivo «civico» deriva dall’idea del cives, ovvero dalla figura cruciale del cittadino. E l’idea di cittadino si fonda su quella di casa, fin dai tempi dell’antica Roma, in cui gli «Edili», non erano gli operai, ma l’autorità prestigiosa più vicina al popolo.

Ecco, edificare significa costruire opere durature, significa abbandonare l’idea dell’effimero che in questi anni ha giocato con la politica, fino a ubriacarla. Significa tornare alle pietre angolari della cittadinanza. Si rispettino tutte le competenze che sono veramente necessarie, ma si finisca di ostacolare una svolta che produrrà ricchezza e che già piace agli italiani.

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