Michele Anselmi
da Roma
«Non se ne esce», sbuffa spesso Margherita Buy. E chissà che quella locuzione un po desueta, squisitamente borghese, non riassuma meglio di altre il finale aperto di Due partite, esordio teatrale, in veste di autrice e regista, di Cristina Comencini. Pubblico delle grandi occasioni venerdì sera al romano Valle, con tanta gente del cinema e del teatro, da Carlo Vanzina a Iaia Fiastri, per questo poker di donne che già registra il tutto esaurito fino al 23 aprile.
Era facile immaginarlo, del resto: proposto da Artisti Riuniti, lo spettacolo si avvantaggia di un notevole richiamo mediatico. Per via delle quattro interpreti coinvolte, tutte brave e variamente legate al grande schermo, al pari dellautrice; e per largomento al femminile, quasi una riflessione, a tratti ulcerata, volentieri spassosa, sullessere donna e madre, ieri come oggi. La Comencini, d'altra parte, se ne intende: a cinquantanni, reduce dalla corsa allOscar con La bestia nel cuore, è già nonna, ha conosciuto da partoriente fitte e contrazioni, la fisiologia femminile non limbarazza, e anzi si inoltra in quel simbolico grumo di sangue e fluidi con tocco naturale, teorizzando la «natura primitiva», quasi bestiale, della condizione puerperale. Più simile allo «sgravare» contadino che al «partorire» urbano.
Poi, certo, la regista ci mette di suo quel gusto per la commedia corale, per la chiacchiera intelligente che cela il vuoto esistenziale, nonché per un certo clima drammaturgico da esplosione fredda. Non a caso cita la Natalia Ginzburg di Ti ho sposato per allegria (ma forse, per restare al modello, verrebbe da pensare a «È stato così»). Avrete capito che il titolo, Due partite, corrisponde alla struttura quasi speculare dello spettacolo, in tutto un centinaio di minuti. Quattro donne in scena, le stesse, dentro lo stesso tinello, ma a distanza di quarantanni: prima tirato a lucido, vissuto; poi in disarmo, coperto da lenzuola. Al levarsi del sipario, siamo a metà dei Sessanta. Ogni giovedì il quartetto si ritrova per giocare a carte, un po svogliatamente. Nella stanza accanto, le figlie piccole ritagliano le foto del matrimonio di Grace di Monaco. Loro, invece, si misurano con le crepe dei rispettivi matrimoni. Sofia (Valeria Milillo) è inquieta e passionale, dice «scopare», cornifica volentieri il marito. Claudia (Marina Massironi) è remissiva e pudica, già rassegnata al tradimento. Gabriella (Margherita Buy) è spigliata e brillante, facile alla battuta che maschera il risentimento. Beatrice (Isabella Ferrari) ha un pancione di nove mesi, vede rosa e si esalta con le poesie di Rilke, ma la depressione sembra lambirla. Sono casalinghe già un po disperate, donne con le gonne, murate vive in una condizione umana - nessuna di esse lavora - che le preserva e le divora. Nel secondo atto, ambientato oggi, indossano pantaloni neri, sfoderano acconciature aggressive, sono ben inserite nel mondo delle professioni. Sono lì per un funerale, legato ad un suicidio, e non ci vuole molto a capire che sono figlie delle precedenti quattro. Squillano i cellulari e muta il lessico (familiare): ma gli argomenti sono gli stessi, sia pure in una chiave rovesciata. Ora vorrebbero tutte avere un figlio.
Spiega la Comencini: «In tutti i Paesi in cui il cinema è vivo, il teatro e la letteratura sono vitali, si scrivono nuovi testi, gli attori di cinema e di teatro frequentano alternativamente il palcoscenico e il set». Magari in Italia le cose non vanno proprio così, e però Due partite corrisponde, a partire dalla sua abile confezione, al tentativo di intrecciare i tre linguaggi artistici in una chiave popolare, quasi divistica. Funziona? A registrare gli umori della platea sì. Specie quando, al di là del messaggio (lamore, anche fuori dai sessi, è conciliazione ma non rinuncia), lautrice azzecca laffondo ironico, in bilico tra impazienza cattivista e birignao romanticista. Altrove, specie nel secondo atto, la tensione si allenta e qualche sbadiglio scappa.
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