
Mio padre ha subito tante ingiustizie. Non se ne è mai lamentato. Mi chiede se avesse dei sospetti su quale fosse l'origine dei suoi guai giudiziari? Sì: sospettava che l'origine fosse in America».
Parla Stefano, 72 anni, uno dei quattro figli di Giulio Andreotti. Parla con grande serenità. Con un sorriso un po' scanzonato che ricorda quello ironico, tagliente, di suo padre.
È stata dura essere figlio di Andreotti?
«Era un nome un po' pesante. Però io e miei fratelli l'abbiamo vissuto con tranquillità. Mio padre si è sempre vantato di avere avuto una famiglia normale».
Quando lei andava a scuola, alle elementari, alle medie, lei era il figlio di Andreotti?
«Sa cosa mi pesava del mio nome? Il fenomeno delle raccomandazioni. Non ha idea di quante richieste di raccomandazioni ricevevo. Ancora mi succede oggi».
Com'era in privato suo padre?
«Non molto presente a casa. Lui alla vita politica ha sacrificato tutto. Però è stato un padre affettuosissimo. Ci viziava. Al contrario di mamma. È lei che ci ha tirato su, e aveva il pugno fermo. Era lei il capofamiglia».
Era permissivo?
«Ci ha sempre permesso tutto. Anche quando diceva: non sono d'accordo».
Qual è il valore più grande che le ha lasciato?
«La serietà. E la generosità. Cercare di aiutare il prossimo era la sua idea fissa. Quando era già molto vecchio una volta andò di nascosto a trovare in ospedale un senzatetto perché aveva saputo che stava male».
Ci teneva ai soldi?
«Ci diceva: ma chi se ne frega dei soldi. Per lui il denaro non contava nulla. Anche se ha guadagnato tanti soldi coi libri. Negli anni d'oro ha venduto milioni di copie».
Il giorno della sua festa che regali gli facevate?
«Pennarelli, taccuini. Penne. Non quelle costose. Ma anche le caramelle Rossana o quelle col buco. Gli piacevano queste cose qui».
Gli piaceva vestirsi?
«Decideva mia mamma. La mattina la mamma gli assegnava i vestiti».
Lei è stato un manager importante?
«Da ragazzino provai a fare il giornalista, poi appena laureato andai alla Siemens a Milano per fare una prova. Ci sono restato 42 anni. Da dirigente».
Mai sfiorata l'idea di fare politica?
«Ce ne avevamo troppa a casa. Noi eravamo tutti andreottiani. E di Andreotti ne bastava uno».
I brigatisti progettarono di rapirlo?
«Il br Franceschini, che è morto qualche settimana fa, una volta raccontò che avevano avuto l'idea di rapire mio padre e di mettergli un rospo in bocca per fargli scontare tutti i rospi che lui aveva fatto inghiottire ai proletari. Una idea terribile. Mi fa impressione ancora adesso».
Vivevate con l'ansia?
«Sì, certo che si viveva in ansia. Ma relativamente. Di minacce mio padre ne ha avute tante. Una volta ci raccontò che ricevette una telefonata a studio, al suo numero segreto. Gli dissero: Non arriverai a fine anno!. Lui rispose: Meno male, almeno faccio Natale».
Come ha vissuto le accuse a suo padre dei figli del generale Dalla Chiesa?
«Le accuse iniziarono subito dopo l'uccisione del generale Dalla Chiesa. Le muoveva Nando. Recentemente poi le ha ritirate fuori Rita Dalla Chiesa. Mi scusi se glielo dico in modo brusco: ne ho le scatole piene. È una enorme ingiustizia. Hanno fatto cento processi, la sua innocenza è accertata. Le accuse sono dettate da persone che non hanno conosciuto mio padre».
Ma i politici in quegli anni avevano rapporti con la mafia?
«In Sicilia chi ha fatto politica e comandato aveva rapporti coi mafiosi. Mio padre no. Mio padre si è occupato di Sicilia solo quando Salvo Lima passò alla sua corrente. Lima, negli anni del sacco di Palermo - concessioni edilizie chiacchierate - non aveva rapporti con mio padre. Era di un'altra corrente. Mio padre era un uomo di governo, non curava la corrente, non amava la vita di partito. Magari, certo, avrebbe fatto meglio qualcuno a non prenderlo nella sua corrente...».
Pensa proprio a Lima?
«Sa, i pentiti hanno parlato di rapporti con la mafia anche di persone che ora passano per santi».
Si ricorda il giorno in cui seppe che suo padre era indagato per omicidio e per appartenenza alla mafia?
«Mio padre aveva rapporti di amicizia con politici di altri partiti. Tra i tanti c'era Chiaromonte, comunista di ferro, presidente dell'antimafia. Chiaromonte andò ad avvertire mio padre che lo stavano cucinando. Per mio padre è stato un dramma. Ha avuto un anno tremendo, anche per noi fu tremendo. Lui che era stato un uomo sempre attivo passò mesi steso su una poltrona imbottito di calmanti. Mia madre cadde in depressione e non si è più ripresa».
Però suo padre resistette.
«Mio padre resistette perché, beato lui, aveva una grande fede in Dio. Mi ricordo il giorno che mi telefonò l'avvocato Giulia Bongiorno. Gli avevano dato 24 anni come mandante di omicidio. Capisce? Pazzesco. Lui dichiarò: Ho fiducia nella giustizia».
Aveva ragione?
«Beh, poi fu assolto pienamente da tutto».
Suo padre le ha mai raccontato segreti della politica? Per esempio sul caso Moro?
«Diceva che il più grande segreto della politica era che non esistono grandi segreti».
Come visse suo padre il sequestro Moro?
«Vivevo con lui nel 78 quando rapirono Moro. E poi quando lo uccisero. Era distrutto. A casa veniva spesso a trovarlo monsignor Macchi, il segretario di Paolo VI. Io mio padre l'ho visto piangere solo due volte in tutta la vita. Quando morì la mia nonna, sua madre, e quando uccisero Moro».
Credeva che dietro le Br ci fossero forze oscure?
«Per mio padre le Br erano le Br. Non ha mai pensato che dietro ci fossero i servizi segreti di Paesi stranieri. Quello che ha sospettato è che poi ci siano stati depistaggi. Così come credeva che i suoi guai giudiziari fossero stati guidati da qualcuno dall'altra parte dell'Oceano».
Come prendeva la satira?
«Si è sempre divertito. Prima Noschese, poi il Bagaglino. Pensi che Noschese si suicidò nella stessa clinica dove era ricoverato mio padre. Papà sentì lo sparo quella notte. Restò scosso».
E chi era l'uomo politico più stimato da suo padre (a parte De Gasperi)?
«De Gasperi. Dal 1942 alla morte è stato un padre per mio padre che era orfano dall'età di due anni. Per gli altri politici aveva stima, certo, ma non considerava nessuno un faro».
Suo padre avrebbe amato Bergoglio?
«Lo aveva conosciuto quando era vescovo di Buenos Aires. Lui ha avuto rapporti molto forti con Pio XII. Poi anche con Giovanni XXIII e con Montini. Ma il rapporto straordinario lo ebbe con Giovanni Paolo II. All'inizio Wojtyla aveva una certa diffidenza verso di lui...».
Perché?
«Lo considerava un po' comunista».
Lei ha delle grandi passioni al di fuori della famiglia, del lavoro, della storia?
«Sì ma non posso confessarla».
Su, me lo dica, non lo scrivo...
«Sono laziale».