C’è anche un esistenzialismo «alla Hegel»

Qual è «questo diabolico ma meraviglioso libro, nel quale è una originalità, una freschezza, una maniera ardita di dire, di fare ecc., che mi ricorda Dante: è il creatore di un nuovo mondo, che trova una nuova forma», come dice Bertrando Spaventa? È la Fenomenologia dello spirito di Hegel, apparso nel 1807. Questo libro avventuroso, nel quale sono stati trovati motivi centrali della fenomenologia di Husserl e dell’esistenzialismo di Heidegger, è un caso unico nella produzione di Hegel. Segna il tormentato passaggio dagli scritti giovanili (pubblicati solo nel 1907) al sistema tutto spiegato, formato dalla Logica, dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, dai Lineamenti di filosofia del diritto e dai corsi di lezioni di Filosofia della storia, Estetica, Filosofia della religione e Storia della filosofia.
E proprio nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello spirito l’Everest si stacca dal K2 (Schelling) e lo sormonta, portando alla massima altezza il massiccio Kant-Fichte-Schelling. Dopo, non son bastati due secoli di feroce opposizione e di bastian contrari come Feuerbach, Stirner, Schopenhauer, i positivisti, Kierkegaard, Marx (figlio degenere, che lo capovolse) e Nietzsche per dirompere il macigno della sua grandiosa sintesi delle discipline filosofiche, che incorpora tutte le precedenti filosofie occidentali e abbraccia la teoria e la storia di tutte le forme di realtà. Al contrario, il suo influsso, dopo essersi sparso nell’Ottocento in tutta Europa (alimentando in Italia il neoidealismo di Croce e Gentile), si è fatto sentire fino ai nostri giorni nell’esegesi di Heidegger, Gadamer e Derrida. Anche la Francia, che ne era stata poco toccata, conobbe poi, nella prima metà del Novecento, una fioritura di studi hegeliani proprio intorno alla Fenomenologia, per merito di Wahl, Hyppolite e Kojève.
La cosa sorprendente è che questa fioritura sia stata chiamata «rinascimento esistenzialistico di Hegel», trasformando in esistenzialista ciò che era la bestia nera del protoesistenzialista Kierkegaard. Ma più sorprendente ancora è che la denominazione sia fondata. Perché è vero che Hegel, in odio all’esaltazione e al soggettivismo morboso dei romantici, si è spinto a un’estrema oggettività, sovrapponendo lo Stato all’individuo, l’etica alla morale ecc. Ma è anche vero che egli visse l’esistenzialismo prima degli esistenzialisti, come attesta appunto la Fenomenologia. Questa è articolata in sei sezioni: Coscienza, Autocoscienza, Ragione, Spirito, Religione e Sapere assoluto e ha tra le sue figure quella della «coscienza infelice», che è diventata il simbolo del libro, perché esso è la storia romanzata dei passaggi della coscienza, con contrasti, tormenti ed erramenti, cioè infelicità e dolore, dall’individualità all’universalità, dalla parzialità alla totalità, dalla finitezza all’infinito.
Ma è proprio qui che Hegel si stacca dagli esistenzialisti veri e propri. Perché il nulla in cui si dibatte la coscienza infelice, non sta, per Hegel, al di fuori o al di sopra dell’essere, ma è contenuto nell’essere stesso e quindi rimanda al divenire, sintesi dell’uno e dell’altro.

Attraverso il divenire la coscienza si apre comunque il passaggio fino al concetto dello spirito. Invece per gli esistenzialisti è evidentemente l’essere che sta nel nulla, nel quale non possono che rimanere a macerarsi, cioè in filosofia segnare il passo.

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