C’era una volta il caffè letterario

«Caffè letterario» è una di quelle espressioni scomparse che indicano un’epoca e - soprattutto - l’età di chi le usa: come «marziani» e «giradischi», ormai riservate agli ultracinquantenni e accolte dai più giovani alla stregua dell’italiano medievale. La si usa ancora, vezzosamente, in certe manifestazioni che spesso di culturale hanno solo l’etichetta, premi, sfizi di assessori, improbabili incontri con autori interessati a vendere qualche copia del loro volume, firmarle (in genere «con simpatia») e ripartire.
Eppure i caffè letterari sono stati una realtà importante nella società e nella cultura italiana, e non solo italiana. Si chiamava Il Caffè, già nel Settecento, la rivista che Pietro Verri pubblicava a Milano fingendo di riportarvi le conversazioni colte che si sarebbero svolte appunto in una caffetteria. Sono rimasti storici, in Italia, locali come il Pedrocchi di Padova, le Giubbe Rosse di Firenze (teatro di una memorabile rissa fra vociani e futuristi) e il Bagutta di Milano, per la verità trattoria, più che caffè. Ma il caffè letterario per eccellenza fu, a lungo, l’Aragno di Roma, seguito dai due Rosati.
Da quasi mezzo secolo chiunque voglia curiosare, magari per studio, nei caffè letterari romani nella prima metà del Novecento ha un testo di riferimento obbligato: Arnaldo Frateili, Dall’Aragno al Rosati. Ricordi di vita letteraria. È una via di mezzo fra quello che oggi si chiamerebbe gossip (però alto) e la documentazione di fatti, idee, persone. Solo che il libro - del 1963, Bompiani - non veniva ristampato da decenni, ed era diventato una preda pregiata dei bibliofili a caccia per bancarelle e librerie antiquarie. L’editore Avagliano ha provveduto a una nuova edizione (pagg. 230, euro 15), e ora il tuffo nel passato è a disposizione di tutti.
L’Aragno (dal nome del proprietario, Giacomo Aragno) era stato aperto il 14 marzo 1890 al piano terra di Palazzo Marignoli, in via del Corso 180, a due passi da Palazzo Chigi. Nella sua Terza Saletta piena di specchi (citata rigorosamente con la maiuscola) si ritrovavano celebri poeti, scrittori, artisti famosi, politici. E naturalmente, giovani affatto o poco famosi in cerca del calore della celebrità altrui, in attesa della propria. Frateili, ternano del 1888, era fra questi. Schivo e appartato, diventerà tuttavia uno scrittore affermato, vincitore di ben due premi Viareggio, nel 1932 con Capogiro, il suo romanzo più bello, nel 1939 con Clara fra i lupi, il suo romanzo di maggiore successo.
Non gli farò il torto di una recensione al libro, che ho tanto studiato in cerca a mia volta dei protagonisti dei miei libri. Ce ne ho trovati molti, Bottai, Malaparte, Ciano, d’Annunzio, Marinetti, insieme a una lista interminabile. Un famoso quadro di Amerigo Bartoli, Amici al caffè, del 1930, oggi alla Galleria d’arte moderna e contemporanea di Roma, mostra uno accanto all’altro, Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Ardegno Soffici, Roberto Longhi ecc.
Mancano nel quadro, ma sono raccontati nel libro, personaggi come d’Annunzio e Pirandello che, giunti al culmine della fama, dovevano e volevano tenersi al largo dai luoghi pubblici e dai nefasti portatori di manoscritti inediti. Così, per esempio, ritroviamo Frateili inviato dal suo giornale a intervistare d’Annunzio, che nel maggio 1919 cala a Roma per perorare la causa delle terre ancora «irredente», nonostante la guerra vittoriosa. Frateili deve andare a Chiusi, per salire sul treno del Vate alle 6 del mattino. Riesce a parlarci lungamente - una stupenda intervista - che si conclude con queste parole di Gabriele: «Il maggiore d’Annunzio le ordina di non scrivere nulla di quanto le ha detto». Frateili, tenente ancora in divisa, dovette ingoiare il rospo. È tenero e surreale, invece, il ricordo delle partite a scopone in casa di Pirandello (che ne andava pazzo), costretto a non uscire dall’adorata compagna Marta Abba, gelosissima.
Nella Terza Saletta dell’Aragno, definita da Orio Vergani «il Santa Sanctorum della letteratura, dell’arte e del giornalismo», nacquero riviste e correnti letterarie, premi e duelli, amicizie e inimicizie fascinose che in parte sarebbero sopravvissute al 1955, quando il caffè venne venduto a una grande catena dolciaria e trasformato in una pasticceria qualsiasi. Oggi, probabilmente, sarebbe scoppiato un caso, con sdegni e lamenti sulle Belle Tradizioni Perdute, uccise dal Consumismo e dalla Moda. Allora, in un’Italia che pensava a ricostruirsi e dove già occhieggiava la televisione, tutto finì in qualche elzeviro lamentoso.
Scrittori e artisti, del resto, si erano già trasferiti in piazza del Popolo, nel vicino caffè Rosati tuttora esistente, che aveva il vantaggio di luminosi tavoli all’aperto: era iniziata l’era in cui anche i letterati volevano, a tutti i costi volevano, essere visti, oltre che letti. Era anche l’epoca del telefono, precursore di Internet, e le idee correvano in altro modo. Per un caso singolare, proprio nell’anno di uscita di Dall’Aragno al Rosati nacque il Gruppo ’63 (Alberto Arbasino, Nanni Balestrini, Umberto Eco, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti), che dettero il via alla Neoavanguardia italiana e che di Caffè letterari proprio non volevano sentire neanche l’odore.
Come osserva Massimo Onofri nella nuova introduzione al libro di Frateili, un altro celebre libro di memorie, uscito nel 1986, parte proprio da dove finisce quello del 1963. È La sera andavamo in via Veneto, di Eugenio Scalfari (Mondadori), dove si racconta che il nuovo caffè letterario è il Rosati di via Veneto.

Lì si ritrovano Mario Pannunzio, Ercole Patti, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Giovanni Russo, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Vittorio Gorresio. Ma, ormai, né la letteratura né - tanto meno - l’Italia sono più le stesse.
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