«C’è sempre un po’ di paura quando si gioca a questi livelli»

OSPITALITÀ Il presidente ha portato a pranzo la delegazione blaugrana in un ristorante in pieno centro

Milano. Insalatina di gamberetti, rucola e carciofi, risotto alla milanese con pistilli di zafferano, Robespierre con funghi porcini, dessert, caffè, stadio. Il presidente Massimo Moratti li aveva portati al «Boeucc» che fa tanto Internazionale, senza scaramanzia al seguito perché li aveva invitati lì anche prima dello 0-0 del girone di qualificazione Champions. Quelli del Barça avevano apprezzato dopo aver respirato l’aria della Milano che piace tanto alla famiglia Moratti, San Babila, la casa di Alessandro Manzoni sullo sfondo, gente di fretta, le bici fra i binari, shopping di metà settimana con cagnetto, sole, bella gente con cellulare, troppi con la maglia del Barcellona al collo. Gente simpatica, avrà pensato il presidente mentre restava indeciso sulla loro fine: cotti e mangiati subito oppure scaldati a fuoco lento, diciamo per sette giorni.
Non c’era il numero uno blaugrana, l’amicissimo presidente Joan Laporta. I due restano entrambi convinti di aver realizzato l’affare dell’anno quando si sono scambiati Eto’o e Ibra. Talmente convinti che usano il massimo riguardo l’uno per l’altro e si sorridono in continuazione: «L’ho sentito al telefono poco fa - aveva spiegato Moratti parlando di Laporta poco prima di infilare il primo gamberetto -. È in macchina e ha appena superato il confine spagnolo».
Gli altri c’erano tutti, la sorella signora Bedi, l’amministratore delegato Ernesto Paolillo e il vicepresidente del Barcellona Jaume Ferrer che aveva rilasciato una dichiarazione da tavola apparecchiata: «Giocare questa semifinale a Milano contro l’Inter ci dà una motivazione speciale».
Il presidente Moratti non era voluto essere da meno: «È una grande partita, e una grande partita si porta dietro sempre un po’ di tensione. C’è sempre paura quando si gioca contro una squadra così forte, d’altronde la paura fa parte dei sentimenti di uno sportivo. Però c’è la consapevolezza di avere una buona squadra, speriamo di fare bene». Dichiarazione cauta con spolveratina di disimpegno: «Sbagliato considerare una semifinale come una finale anticipata. Purtroppo non è così - aveva proseguito il presidente prendendo sempre più le distanze da un disastro anticipato -, chissà chi andrà alla finale? Il Santiago Bernabeu per noi è uno stadio molto importante, prima però c’è la partita».
Il motore stava andando benissimo, oliato al punto giusto quando all’improvviso ha rischiato di grippare: un cronista di una tv spagnola, stordito, aveva chiesto al presidente un possibile parallelismo con quanto era stato fatto da suo padre Angelo, sbagliando però squadra e citando il Milan anziché l’Inter. Massimo Moratti ha incassato, attimo di sbandamento, sguardo sopra la lente, aggancio volante all’ultimo gamberetto e un attimo prima di attaccare il risottino gli ha detto: «Scusi, lei sarà anche simpatico, ma non confondiamo, per favore».
Lo stordito si è scusato, Moratti ufficialmente ha accettato, sotto il tavolo però gli è partito un colpo, naturalmente a vuoto: «Quell’Inter fu meravigliosa contro il Real a Vienna e contro il Benfica. Le confesso che mi piacerebbe rivivere il medesimo piacere». Ma senza dare riferimenti, senza urtare l’ospite: spero di rivivere lo stesso piacere ma non intendo adesso. Pensiero che immaginiamo, ma farebbe il paio con la soluzione B scelta dal presidente, e cioè non vi cuocio subito, c’è tempo al Camp Nou fra una settimana.

E quasi per rinnovare le sue scuse, altra sviolinata al nemico: «Joan Laporta è sempre una persona molto gentile e simpatica e Messi è il più forte di tutti, non so proprio come bisognerà fare a fermarlo, ci penseranno Mourinho e i giocatori». Arrivati alla Robespierre erano finiti i convenevoli e avevano finito le frasi carine. Il dessert è volato via, il presidente non vedeva l’ora di rimettersi la maglietta a righe e dire finalmente quello che pensava.

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