Tra un caffè e l’altro correva la cavallina

Ciambellano di corte, cambiò padrone senza essere voltagabbana Esperto di legge, diventò un luminoso burocrate della sua città, ma solo dopo averle mostrato i pugni...

Fu ciambellano di corte di Maria Teresa d’Austria. Giunto però Napoleone, si schierò col francese rinnegando il suo passato di suddito asburgico. Nonostante le apparenze, non fu però un voltagabbana. La sua moralità non si misura con lo scarso attaccamento a due regimi, entrambi stranieri. Ma dall’incrollabile coerenza in due cose tra loro connesse: l’amore per la sua città e una grande ambizione per se stesso. Il Nostro ebbe infatti un costante desiderio di cariche pubbliche per metterle al servizio dei concittadini, nella convinzione di poter operare meglio di chiunque.
Compì di malavoglia gli studi giuridici, per compiacere il padre che, nei suoi ultimi anni, fu presidente del Senato cittadino. Ma, fatta la scelta, divenne un grande esperto di leggi, utilizzando la sua competenza per migliorare l’amministrazione. Prima, però, ebbe un periodo di disordine.
A 30 anni, il nostro nobiluomo intrecciò una relazione con Maria Vittoria Ottoboni, moglie del duca Gabrio Serbelloni. Fu un amore scandaloso e malvisto dal padre, tanto che i rapporti con la famiglia si fecero burrascosi. Il Nostro, infastidito dalle liti, divenne un malmostoso. Sfogò i propri rancori con poemi satirici - tra cui La Borlanda impasticciata -, prima di consacrarsi alla saggistica. Ma anche in questa temporanea scorribanda letteraria, mostrò la singolarità del suo talento. Si servì infatti di un linguaggio maccheronico derivato dal latino, greco, lombardo, francese, ecc., con effetti originalissimi. È quello che in teatro si chiama il «grammelot», dal francese grommeler, ossia borbottare tra i denti. L’identica tecnica che usa oggi Dario Fo nelle sue interminabili litanie. Pubblicò nello stesso stile ed eguale successo di pubblico, Il gran Zoroastro, predizioni astrologiche che fingeva di avere «tratte da un manoscritto di pietra e dall’egiziano in volgare favella per la pubblica utilità tradotte». Sempre in questa fase umorale, il nostro Fo ante litteram creò l’Accademia dei Pugni, così chiamata per lo spirito battagliero dei suoi aderenti. Il gruppo fondò una gazzetta di costume mettendo alla berlina clero, nobiltà e superstizioni popolari. Il protagonista di questo attacco a 180 gradi della società contemporanea era un personaggio inventato, tale Demetrio. Costui era immaginato come un greco italianizato, proprietario di una bottega di coloniali, che pubblicava sulla gazzetta i discorsi uditi dagli avventori. La presunta bottega del presunto Demetrio è una suggestiva anticipazione dei celebri Caffè viennesi ancora di là da venire. Quieti ritrovi dove i clienti trovano ogni genere di giornale e in cui «si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio».
La rivista durò un paio d’anni, ma la sua fama di foglio d’avanguardia è giunta fino a noi. Fu anche l’ultima impresa, diciamo così, «letteraria» del Nostro che, negli anni successivi, si dedicò solo all’amministrazione. Ormai noto in città, ebbe, infatti, l’incarico dalle autorità austriache di redigere uno studio sui gabellieri privati, i cosiddetti «fermieri». Le conclusioni furono drastiche: i fermieri facevano la cresta sulle imposte; lo Stato doveva abolirli e riscuotere le tasse da sé. Il progetto piacque a Vienna che insignì il Nostro dell’onorificenza di «Cavaliere di Santo Stefano», chiamandolo a fare parte della Giunta per la riforma fiscale. Da questo momento, il letterato cede definitivamente il passo al riformatore.
Svaporata la tresca con la Serbelloni, dopo un periodo di cupo dolore, l’ormai alto funzionario asburgico corse con discrezione la cavallina per diverso tempo. Alle soglie dei 50, sposò una nipote, Marietta, di parecchi anni più giovane. Ne ebbe un paio di pargoli e restò vedovo. A 54 anni, convolò a nuove nozze con Vincenzina Melzi adempiendo con tanto zelo ai doveri coniugali da snocciolare numerosa prole ben oltre la sessantina. Altrettanto fervente fu l’attività intellettuale. Scrisse una mastodontica Storia di Milano che consolidò la fama acquisita in precedenza col suo scritto più noto: Osservazioni sulla tortura. Questo saggio - che contribuì all’incivilimento della società al pari de Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria - è alla base della manzoniana Storia della Colonna infame.
Quando nel 1796 Napoleone entrò nel dominio asburgico, il Nostro era già in pensione.

Ripescato, venne eletto nella Municipalità. Si tuffò arzillo nel nuovo incarico. Una notte che discuteva animatamente nella sala consiliare fu fulminato da un colpo apoplettico. Aveva 68 anni e li aveva spesi bene.
Chi era?

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