Caffè, tabacco e Venere per i big

Non è necessario farsi legare alla sedia come Vittorio Alfieri, per essere un forzato della scrittura. Possono bastare ettolitri di caffè o quintali di tabacco. Possono bastare una decina di chilometri di passeggiata al giorno. O rubare alla notte un bello spicchio di veglia (come oggi fa Andrea Vitali, che nelle ore diurne deve stare con gli occhi bene aperti, essendo di professione medico).
Prendiamo Honoré de Balzac. È stato calcolato che nella sua Commedia Umana scorre un fiume alimentato da 50mila tazze fumanti della bevanda più amata dai romanzieri (non quelli light di una certa pubblicità che preferiscono il decaffeinato - e i risultati si vedono: ad addormentarsi è il lettore). E Georges Simenon? Quante cariche di pipa gli occorrevano per ultimare un Maigret? Diciamo una ogni dieci pagine? Farebbero più o meno venti cariche a libro: nemmeno tante. Ma il tabacco non gli bastava: ci voleva un (bel) po’ di Venere, per oliare il meccanismo creativo.
Fra gli autori-podisti, probabilmente la medaglia d’oro spetta ex-aequo a Robert Walser e a Friedrich Nietzsche. Lo svizzero batteva ramingo boschi e sentieri in uno slancio panico che era anche, per lui, l’unico modo di alleviare ansie e allucinazioni. Mentre il tedesco, senza le sue peregrinazioni nell’Engadina o nella Riviera ligure, semplicemente non sarebbe esistito, né come persona, né tantomeno come filosofo: il viandante aveva bisogno della sua ombra come del pane.
Scambiare la notte con il giorno, poi, era una delle tante specialità del vulcanico leone Lev Nikolaevic Tolstoj.

Intorno a lui, nella «comune» di Jasnaja Poljana, regnava il silenzio quando, con indosso un pastrano e al lume di una candela, curvo sul tavolo come un orco nel suo antro, dalla penna estraeva la Karenina e Bezukov, Ivan Il’ic e Nechljudov. Ma anche Franz Kafka non scherzava, in fatto di abitudini notturne. Anche per questo tutta la sua opera ci appare come un incubo.

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