Mani Sapol rabbrividisce all'idea di diventare uno scudo umano, e pigia sui tasti della chat di Facebook come un forsennato. La frase «j'ai trop envi de revenir au pays» («anch'io voglio tornare a casa») è un mantra. Attraverso il social network per eccellenza il 20enne calciatore togolese professionista a Tripoli (16 presenze nella nazionale di Adebayor), lancia il grido d'allarme di chi non vuole trasformarsi in carne da macello: «Sono stato abbandonato dal mio governo. Tante promesse, ma alla fine l'aereo per rimpatriare me e i miei connazionali non è mai atterrato». Mani vive in un appartamento del quartiere residenziale di Dhat al Imad, a due passi dal mare. É scapolo, ma da tre settimane, ironia della sorte, l'ha raggiunto a Tripoli mamma Evelyn: «Non poteva scegliere il periodo peggiore, anche se nessuno fino a un mese fa avrebbe mai prospettato un simile inferno».
Mani vive suo malgrado quasi la condizione dell'inviato in una polveriera problematica da disinnescare: «La situazione a Tripoli peggiora di ora in ora. La gente è in fuga, l'aeroporto è al limite della sopportazione. Temo di diventare uno scudo umano nei raid aerei degli alleati». Il timore di Mani è per altro condiviso dagli stranieri ancora bloccati in Libia. Tra loro risultano anche una ventina di italiani. Il giovane togolese non si sente al sicuro: «Gioco nella squadra dell'Al Ittihad, una delle più prestigiose in Libia. Il calcio mette tutti d'accordo, regime e oppositori. Fino ad ora nessuno mi ha torto un capello. I militari mi riconoscono e mi invitano a rimanere in casa. Già, ma per quanto tempo ancora?».
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