Calcio

C’era una volta la Serie A. Quando gli arabi del calcio eravamo noi

La parabola della Pro League saudita somiglia tanto all'età dell'oro della Serie A, quando tutti i migliori campioni al mondo giocavano nei nostri stadi. Gli errori di allora sono gli stessi fatti oggi dagli arabi. Per tornare al top servirà costruire valore e scelte impopolari

Fonte: Twitter (@CFclassics)
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In questa caldissima estate non passa giorno senza l’ennesimo annuncio roboante, l’ennesimo campione che molla il calcio che conta per seguire le danarose sirene del nuovo Eldorado del pallone, la ricchissima Pro League saudita. A parte poche eccezioni, nessuno sembra in grado di resistere al richiamo dei petrodollari del fondo Pif, che si è messo in testa di costruire la collezione di figurine più grande e costosa al mondo. Se anche una superstar come Neymar sembra sul punto di trasferirsi in Arabia, che speranza possono avere le “povere” grandi d’Europa, sempre più nervose di fronte alla prepotenza finanziaria dei club foraggiati dal portafoglio della famiglia reale saudita? Chi ha qualche giro attorno al sole in più, però, ricorda discorsi non molto diversi, che venivano fatti una trentina di anni fa.

Van Basten Gullit Champions
Fonte: Twitter (@kekkajumped)

A farli erano le stesse squadre, ricche di tradizione, tifosi ma incapaci di reggere il passo di un campionato che nel giro di pochi anni passò dall’autarchia a diventare la destinazione obbligatoria dei più grandi talenti al mondo. A noi malati di calcio andava benissimo, visto che si trattava proprio della nostra Serie A, che, pur limitando il numero di stranieri in rosa, divenne il campionato più bello del mondo. L’epoca d’oro del campionato italiano fu gloriosa, portò trofei in abbondanza ma, allo stesso tempo, pose in essere i semi della crisi attuale. A parte lo sconforto di vedere grandi campioni lasciare il nostro calcio, possibile che per reinventarsi un futuro si debba guardare indietro, a quell’epoca indimenticabile quando gli arabi del calcio eravamo noi?

Vinceva perché vinceva l’Italia

Persi com’eravamo a goderci le imprese dei più grandi campioni al mondo, le miracolose punizioni di Maradona e Platini, la classe infinita di Zico, la tigna dei tedeschi dell’Inter, non abbiamo forse mai metabolizzato le ragioni dietro all’incredibile successo della Serie A di quegli anni, che riuscì a distruggere la concorrenza e diventare popolarissima in tutto il mondo. Avere in campo i campioni più famosi, quelli che facevano sognare con le maglie delle nazionali certo aiutò non poco a farsi strada nei cuori dei tifosi a tutte le latitudini, anche in paesi dove il calcio era quasi sconosciuto. L’impatto della Serie A stellare, di quelle squadre piene zeppe di campioni fu incredibile in tutto il mondo ma specialmente in Asia, dal Giappone all’Indonesia alla stessa Cina. Chi ha visto una partita della J-League, il campionato nipponico, noterà subito come parecchi nomi delle squadre suonino molto familiari e come, nelle curve, gli striscioni sono spesso in italiano. In Indonesia, il paese islamico più popolato al mondo, le squadre più seguite sono ancora Inter, Milan e Juventus, nonostante i disperati tentativi della Premier League.

Rummenigge Inter Rangers
Fonte: Twitter (@FI69interista)

La Serie A faceva proseliti perché aveva i campioni, certo, ma anche perché rappresentava un paese in grande crescita, che si godeva gli anni ruggenti, quelli dei grandi gruppi industriali che spopolavano nei mercati mondiali, quando riuscimmo a superare il Regno Unito e diventare il quinto paese più ricco al mondo. Le squadre del nostro campionato erano ricche, molto più delle altre, perché rappresentavano l’ambizione di capitani coraggiosi che avevano davvero voglia di spaccare il mondo. Non finì benissimo, ma negli anni ruggenti il Parma calcio era il veicolo ideale per la Parmalat, che stava aggredendo i mercati più ricchi in tutto il pianeta e voleva una vetrina davvero globale. Stesso dicasi per la Juventus, le milanesi, la stessa Lazio dell’ambizioso Cragnotti, che fece poi il passo più lungo della gamba. La Serie A era, poi, la vetrina di un paese che era all’avanguardia del design, della moda, amato ed invidiato in tutto il mondo. Senza il traino dei marchi famosi del quadrilatero della moda, dei film, delle supercar che facevano sognare, il successo della Serie A non sarebbe stato così incredibile. Il calcio tricolore vinceva perché dietro aveva un paese ambizioso, che guardava al futuro con grande ottimismo, che sapeva vendersi. Non lo sapevamo ancora, ma sarebbe stata proprio la nostra hubris a minare alle fondamenta il sistema calcio.

Chi più spende, più vince

Come disse a suo tempo Oscar Wilde, quando gli Dei vogliono punirti, esaudiscono le tue preghiere. Il successo travolgente della Serie A fu, forse, la cosa peggiore che potesse succedere al calcio italiano perché fece passare una massima dalla quale fatichiamo ancora a liberarci: chi più spende, più vince. Quei gruppi industriali che si erano affacciati al calcio per farsi pubblicità a prezzi d’occasione, si lasciarono prendere la mano, impegnandosi in una disastrosa escalation in quanto a cartellini e stipendi. I grandi campioni continuavano ad arrivare, certo, ma le voragini nei bilanci diventavano sempre più enormi, tanto da diventare rapidamente insostenibili. Fino a quando la locomotiva Italia tirava come una forsennata, si scelse di ignorare il problema, ma le crepe nel castello di sabbia iniziavano a notarsi. L’apoteosi del calcio tricolore, quella che doveva essere la grande festa di un paese ricco e pieno di fiducia si trasformò in un costosissimo disastro. Nel mondiale di casa, quello nel quale tutti i più grandi campioni giocavano negli stadi che conoscevano a menadito, fu l’apoteosi dello spreco e di chi pensava che la festa non sarebbe mai finita.

Zico Maradona
Fonte: Twitter (@100clubism)

Proprio quando il sistema iniziava a scricchiolare, ecco che entrarono in campo le pay tv, con i diritti televisivi che, da entrata marginale rispetto al botteghino, divennero sempre più fondamentali nei bilanci delle squadre. La grande festa della Champions League, con i suoi assegni milionari, con gli sponsor planetari arrivò qualche anno dopo, quando la bolla del calcio tricolore era vicina alla fine, schiantata dalla logica del ‘paga Pantalone’. I capitani coraggiosi, alla lunga, si resero conto che il gioco non valeva più la candela e, uno alla volta, si fecero da parte. Visto che, come si dice dalle mie parti, dal campo deve uscire sempre la fossa, arrivarono le plusvalenze creative, i carneadi scambiati per cifre assurde, gli artifici più o meno ridicoli. Non servì a niente: al crac Tanzi seguì quello di Cragnotti, seguito da Cecchi Gori e da tanti altri che pagarono carissimo il giro sulla giostra più costosa al mondo. Il calcio italiano precipitò sulla terra dopo aver volato troppo vicino al sole, moderno Icaro costretto a vedere i propri emuli che, imparata la lezione, fecero molto meglio senza finire sommersi dai debiti.

L’Arabia come l’Italia anni ‘90

I paralleli tra la parabola della Serie A e l’esperimento che stiamo osservando in Arabia sono molti, come le differenze. In Arabia non ci sono voluti anni ma giorni per trasformare il calcio perché c’è un padrone solo, il fondo Pif, a finanziare lo shopping miliardario di un sistema del tutto impreparato al ruolo da protagonista a livello mondiale che gli si vorrebbe far fare. Da noi ci vollero i Berlusconi, i Moratti, gli Agnelli, i tanti imprenditori locali malati di calcio per far crescere la bolla, acquisto assurdo dopo acquisto assurdo; in Arabia tutto si muove alla velocità della luce ma la logica è sempre la stessa. L’Italia voleva i campioni per fare pubblicità al sistema paese, per dare l’impressione di non esser più l’Italietta del dopoguerra, col cappello in mano di fronte ai grandi del mondo. I mondiali del 1990 dovevano essere la celebrazione di un paese finalmente ricco, potente, sicuro di sé stesso. Furono, invece, la migliore dimostrazione dei mali profondi che, nel giro di pochi anni, avrebbero causato il terremoto e la ventennale crisi che stiamo vivendo. L’Arabia Saudita vuole i campioni per ragioni molto diverse: per rispondere all’oltraggio del mondiale in Qatar, per fare pubblicità al paese, per farlo diventare una destinazione turistica, per attirare imprenditori e giovani di talento. La logica, però, è sempre la stessa: chi più spende, più vince.

Neymar ANSA

Nel breve periodo la Pro League sembrerà inarrestabile, attirando campioni su campioni, schierando squadre in grado di far sognare, ma non farà altro che costruire le fondamenta del crollo prossimo venturo. Il problema, in fondo, è lo stesso che segnò la fine dell’età dell’oro della Serie A: nessuno sa come trasformare la giostra dei sogni in una macchina che generi profitti. Se negli anni ‘80 e ‘90 nessuno, in fondo, pensava a come far quadrare i conti, convinto che ci sarebbe sempre stato il munifico patron a ripianare i debiti, anche in Arabia non si capisce come un sistema del genere possa reggersi sui propri piedi. I diritti televisivi venduti a poco prezzo per mettere i famosi campioni sugli schermi di tutto il mondo hanno senso dal punto di vista delle relazioni pubbliche, certo non dei bilanci. Il mondiale tanto desiderato, prima o poi, arriverà; ci sarà la grande festa e, chissà quando, i cordoni della borsa si chiuderanno, come successo a suo tempo dalle nostre parti. È solo una questione di tempo.

Benzema Esperance Al Ittihad

Come tornare al top? Facendo soldi

Invece di stare lì ad invidiare i dirigenti delle squadre arabe, inarrestabili con la loro magica carta di credito, bisognerebbe pensare a come far uscire il nostro sistema calcio dalla sbornia degli ultimi trent’anni, non ancora del tutto metabolizzata. I capitani coraggiosi di una volta non torneranno più: il paese è diverso, più vecchio, più stanco, depresso, impaurito della sua stessa ombra. Dobbiamo quindi rassegnarci ad un futuro triste, un declino inevitabile, con le nostre grandi squadre condannate a banchettare con gli avanzi degli altri, dei veri padroni del calcio mondiale? Un modo di uscire da questa situazione c’è e lo abbiamo visto in azione negli ultimi anni: fare soldi. Nel mondo del pallone non c’è insulto peggiore che dire che un presidente “si è messo in tasca i soldi” dopo la vendita di questo o quel campione. È un male antico, l’idea che il denaro sia lo ‘sterco del Diavolo’, che il profitto sia una specie di male necessario, che gli utili vadano sempre ridistribuiti. Il metodo arabo, quello dei debiti infiniti, delle spese pazze, l’abbiamo già provato, senza avere niente a parte tante splendide memorie per i miliardi spesi. Serve una rivoluzione copernicana, ad ogni livello, ma sempre all’insegna del massimo rigore nei conti e degli investimenti giudiziosi, pensando al futuro.

Commisso ANSA

Prendete il caso di Rocco Commisso, ricchissimo proprietario della Fiorentina, tornato dall’America con un patrimonio sterminato e la voglia di diventare protagonista del nostro calcio, realizzare un sogno da bambino. La sua Viola non fa spese pazze, non si indebita fino ai capelli, costruisce per il futuro, ha un business plan che non si fonda sulla qualificazione alla Champions per sistemare i conti. Il futuro si costruisce, un pezzo alla volta, studiando bene il da farsi, valutando i pro ed i contro. I cento e passa milioni spesi per il Viola Park, il centro di allenamento più avanzato in Europa, hanno fatto sorridere molti ma il futuro della Fiorentina parte proprio da qui. Certo, ci vorrebbe anche lo stadio di proprietà ma quello scatena troppi appetiti e veti incrociati dei politici. La gestione Percassi all’Atalanta è stata talmente perfetta da attirare un fondo statunitense e chiudere il mercato con un grosso guadagno. L’Udinese non ha avuto nemmeno bisogno di investitori stranieri: i Pozzo sanno bene come far tornare i conti. La Serie A può e deve costruirsi il futuro compiendo scelte impopolari, lasciando partire campioni forse sopravvalutati per investire su talenti da rivalutare ma senza perdere d’occhio il vero obiettivo: costruire valore.

Tonali Newcastle Aston Villa Fotogramma

I tifosi storceranno la bocca, si strapperanno i capelli nel vedere partire il proprio idolo, riempiendo la proprietà di improperi. Piaccia o meno, i tanto denigrati fondi hanno ben presente che, nonostante sia circondato da un’immensa passione, una società di calcio risponde alle leggi dell’economia come tutte le altre. I debiti si possono fare ma solo nel breve periodo, per costruire le fondamenta del successo futuro, dei profitti da distribuire a tutti gli azionisti. L’Arsenal, pur di poter costruire lo splendido Emirates Stadium, si condannò a dieci anni di mercati insoddisfacenti, di stagioni senza titoli, di cocenti delusioni. I tifosi protestarono ma, alla fine, la società ha un patrimonio miliardario ed ora può tornare a fare la voce grossa. Guardiamo pure l’Arabia, gli stipendi faraonici, ricordiamo come, non troppi anni fa, gli stessi errori li facevamo noi. Per tornare grandi serve programmazione, costruire solide realtà invece di farsi abbacinare da pericolosi voli pindarici. Il circo Barnum dell’Arabia, prima o poi, passerà. Sono liberi di fare anche loro i nostri errori. Il futuro è altrove.

Un passo alla volta, la Serie A potrà tornare ad essere protagonista: bisogna solo crederci, lavorare duro e tenere la testa bassa.

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