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Quando l'Avellino salvò l'Irpinia dopo il terremoto

Da Avellino una storia di speranza legata al calcio dopo uno dei terremoti più devastanti che hanno colpito il nostro Paese

Quando l'Avellino salvò l'Irpinia dopo il terremoto

Tra le macerie di Malatya, città turca poco più a nord dell'epicentro del terremoto dello scorso 6 febbraio, è stato trovato anche il corpo di Ahmet Turkaslan. Era il portiere della locale squadra di calcio, lo Yeni Malatyaspor. Un club della Serie B turca, campionato anch'esso sospeso come tutti quelli delle varie categorie sportive nel Paese. Aveva 28 anni e i compagni in questi giorni non sono riusciti a trovarlo.

La notizia della sua morte era nell'aria e poi purtroppo puntualmente è arrivata. Adesso il club ha chiesto di non proseguire più la stagione quando le autorità autorizzeranno la ripresa delle attività. Lo staff, la società e i giocatori non riescono a pensare agli allenamenti. Intorno a loro c'è il dolore della famiglia del portiere, ma anche di un'intera città che a distanza di giorni sta continuando a seppellire le proprie vittime.

La storia di Turkasan e del Malatyaspor ricordano ancora una volta l'estremo rapporto che c'è tra il calcio e la popolazione. E, nello specifico, di come anche in una fase come questa il calcio può assumere la funzione di amplificatore dei dolori e delle speranze vissute da una specifica comunità.

Avellino–Ascoli, la partita che “salvò” migliaia di persone

Quanto sta accadendo in Turchia riporta con la mente ai tanti scenari simili vissuti nel nostro Paese. C'è però un episodio che più di ogni altro in Italia ricorda l'intreccio tra il mondo del pallone e una comunità che ha appena subito un grave danno. Occorre tornare indietro nel tempo, fino al 23 novembre 1980. Una data che, per chi è del sud, apre subito vasti fronti all'interno della memoria. Quel giorno, alle 19.34, in un'area compresa tra Campania e Basilicata si sviluppa il più forte sisma del dopoguerra nella nostra penisola.

Quella regione è nota con il nome di Irpinia e quella scossa rimane alla storia proprio come terremoto dell'Irpinia. Tra le province di Avellino, Potenza, Salerno, Caserta, Napoli, interi paesi vengono inghiottiti dal terreno e dalla storia. È il più grande disastro naturale dell'Italia repubblicana, ancora oggi una ferita aperta lungo la spina dorsale del mezzogiorno.

Ma quel giorno, fino all'orario del tremore, è una domenica come tutte le altre. Ad Avellino a pranzo sono tutti con le radioline accese: la Serie A si gioca tutta in contemporanea, c'è la sfida tra Juventus e Inter, ma anche la città campana quell'anno gioca nel massimo campionato. Chi non è riuscito a prendere un biglietto per andare al Partenio, tra un dolce e un altro seduto a tavola tifa per i lupi biancoverdi aspettando notizie dalla radio.

La partita di quel 23 novembre è quasi decisiva. Ad Avellino arriva l'Ascoli, diretta rivale per la salvezza. La squadra di casa ha solo due punti in classifica dopo sette giornate. Ma questo perché a inizio campionato la sentenza sullo scandalo Calcioscommesse, la stessa che porta in B Milan e Lazio, assegna agli avellinesi cinque punti di penalizzazione. In casa si deve quindi vincere, diversamente la corsa alla salvezza è solo un miraggio.

Il Partenio è come al solito una bolgia. Anche chi rimane a casa sente le vibrazioni di uno stadio in quegli anni vero fortino biancoverde. Fa molto caldo, nonostante sia novembre sembra quasi estate. I ritmi sono però molto elevati: dopo undici minuti, l'Avellino è in vantaggio con un autogol di Scorza. Dodici minuti dopo però arriva il pari dei bianconeri marchigiani. Juary, il brasiliano biancoverde, non ci sta e al 34' insacca per il nuovo vantaggio dei lupi. I quali poi dilagano con Ugolotti all'inizio del secondo tempo. Una partita dominata, ma con gravi disattenzioni difensive, tanto che l'Ascoli si rifà sotto con un destro violento di Scanzani. Si teme una beffa, ma un rigore trasformato ancora una volta da Ugolotti chiude i conti.

Una sfida stupenda, sei gol siglati e due punti per l'Avellino in tasca. La gente, uscita dal Partenio, non ha voglia di andare a casa. In Irpinia c'è una sorta di primavera anticipata, si preferisce quindi stare in giro con chi si è condiviso il posto in curva poco prima oppure ricongiungersi con gli amici loro malgrado costretti al pranzo in casa.

Mezza città è per strada tra un commento sulla vittoria e uno sul caldo anomalo di quella domenica, quando le lancette segnano le 19.34. Dirà pochi giorni dopo l'inviato del Tg1 Alberto Michelini, in un servizio trasmesso sul terremoto, che la vittoria dell'Avellino ha forse salvato centinaia di vite. In tanti, quando lo scossa inizia a far tremare l'intero sud Italia, sono ancora in giro con la sciarpa biancoverde al collo.

Lo "scudetto irpino", un miracolo partito dopo il terremoto del 1980

Avellino nel novembre 1980 assume l'aspetto che oggi hanno Kahramanmaras o Malatya. Città capoluogo o comunque importanti di una zona terremotata, vicine l'epicentro e con la vita quotidiana costretta a lasciar spazio all'emergenza. La città campana vede il proprio centro storico sventrarsi tremore dopo tremore, piange quasi cento vittime, diventa spettrale nelle sere successive a quel 23 novembre. Ma è anche un punto focale fondamentale per i soccorsi, uno snodo da cui partono mezzi, sacchi, scatole di cibo e medicine verso il cuore dell'Irpinia. Verso quel ventre molle del mezzogiorno colpito nell'oscurità di quella domenica di novembre.

Lo stesso stadio Partenio si trasforma: da fortino biancoverde, in pochi giorni diventa dimora per gli sfollati, nelle gradinate non ci sono i tifosi, ma i soldati dell'esercito che coordinano i soccorsi. E in campo, non ci sono i giocatori ma le tende che accolgono chi ha perso tutto.

Così come oggi nella Turchia meridionale, anche ad Avellino e in Irpinia in quel momento non sembra esserci spazio per il calcio. Troppo il dolore, troppo il senso di distruzione che serpeggia nell'animo di milioni di abitanti. Eppure, proprio da quel momento, iniziano a fiorire all'interno dello spogliatoio dell'Avellino i semi di un miracolo sportivo.

Il caso vuole che la squadra, nelle due domeniche successive al sisma, giochi in trasferta. Una partita è a Pistoia e un'altra è ad Udine. Racconterà il capitano di quell'Avellino, Salvatore Di Somma, che in quelle due trasferte non c'era testa per giocare. E infatti i biancoverdi perdono e sembrano dover dire addio a ogni speranza di salvezza.

Ma quel ciclo nella massima serie dell'Avellino non è destinato a finire così, proprio nel momento più tragico della storia della città. La squadra, al cui timone c'è il presidente Antonio Sibilia (imprenditore non certo lontano da “chiacchiere” e gravi sospetti giudiziari), è in A dal 1978. Ha già conseguito tre salvezze di fila ma non vuole mollare.

In panchina siede il brasiliano Luis Vinicio, uno a cui il nuovo calcio totale degli olandesi non dispiace affatto applicarlo in Italia. In porta, finita l'era di Ottorino Piotti, arriva un giovane di belle speranze: è Stefano Tacconi, un nome che non ha bisogno di presentazioni e che alcuni anni dopo sarà parte integrante della storia della Juve di Trapattoni. In estate dal Verona, per curare la regia di centrocampo, arriva Beniamino Vignola, anche lui futuro giocatore bianconero. La difesa è puntellata da capitan Di Somma. In avanti c'è il giovane Andrea Carnevale, l'esporto Mario Piga e poi il primo acquisto straniero dopo l'apertura del calciomercato ai giocatori provenienti dall'estero: si tratta del brasiliano Juary.

Sono loro a spingere l'Avellino quando i biancoverdi sono costretti all'esilio al San Paolo di Napoli. Qui il 28 dicembre la squadra blocca la Juventus sul pari. Poi arriva un punto anche contro l'Inter a San Siro, finalmente infine si rientra al Partenio. Il ritorno della Serie A ad Avellino segna il ritorno della normalità. La città è ancora devastata, tutto attorno è un cumulo di macerie, ma la gente può tornare, proprio come poche ore prima del sisma del 23 novembre, a scaldarsi tra le gradinate dello stadio.

Arriva una vittoria contro il Bologna, poi contro il Brescia, contro il Torino, contro il Perugia. Il pubblico vede nei biancoverdi un riscatto dalle ferite fisiche e morali del sisma. Squadra e città sono un'unica cosa, un'unione indelebile e quasi imbattibile. Assieme spingono verso una salvezza da ottenere con una lunga e interminabile rincorsa.

Rincorsa a cui manca, il 24 maggio del 1981, l'ultima spinta. Quel giorno all'Avellino manca solo un punto, da ottenere all'ultima giornata, per salvarsi. Ma al Partenio arriva la Roma. La stessa squadra che due settimane prima manca l'aggancio alla Juventus in testa alla classifica per il gol annullato a Turone nello scontro diretto. I giallorossi sono ancora in corsa per lo scudetto e credono nel tricolore. Lo mette in chiaro Falcao, il quale dopo cinque minuti segna il gol del vantaggio ospite.

Quello però, per l'appunto, non può essere il finale per un Avellino più forte anche del terremoto. E infatti al minuto 29 Venturini sigla il pareggio. Il Partenio esplode e poi trattiene, ancora una volta, il fiato. Il pareggio gli uomini di Vinicio riescono a gestirlo. Fino alla fine. Fino alla realizzazione del miracolo. Di quello "scudetto irpino" passato alla storia non solo calcistica della regione.

La Serie A, in una città ferita dal sisma, rimarrà fino al 1988. La salvezza del 1981 ha però un sapore diverso. È quello della speranza, la stessa che oggi tramite il calcio potrebbe arrivare anche in Turchia.

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