È un pomeriggio tiepido del 20 aprile 1986, e sull’Olimpico aleggia un’attesa da domenica delle Palme. Il sole brucia piano, la curva canta, le bandiere ondeggiano come lenzuola stese al vento. La Roma di Eriksson è pronta a raccogliere il frutto di una rincorsa memorabile: mesi di vittorie, di sogni, di fatica. Davanti, un Lecce già retrocesso, quasi un ospite gentile venuto a offrire un sorriso d’addio. Tutto sembra scritto. Ma il calcio, si sa, è un animale crudele.
I giallorossi hanno fatto un inizio di campionato faticoso e, quando si arriva al giro di boa, si trovano a otto punti di distacco dalla Juventus capolista. Eppure, grazie a un girone di ritorno tappezzato di successi, cambiano marcia. Fino a ritrovarsi appaiati ai bianconeri a due giornate dalla fine.
Si torna all'Olimpico, dunque. La Roma parte bene, gioca ariosa, fiera, e al ventesimo Graziani mette dentro un pallone che pare un sigillo. L’Olimpico esplode, si abbracciano persino gli steward. È l’inizio del trionfo, pensano. È invece si tratta dell'incipit di un impensabile disastro. Perché il Lecce, che scarico di motivazioni dovrebbe abbassare la testa, la rialza. Di Chiara, un ex, calcia da fuori e infila Tancredi con un tiro che pesa come un tradimento. Poi un altro fendente: rigore per il Lecce. Dagli undici metri, Barbas, argentino estroso e malinconico, fa il 2-1. L’Olimpico adesso è un congelatore in piena primavera. C’è chi smette di cantare, chi non capisce. Qualcuno osserva il cielo, cercando un qualche segno dalle divinità calcistiche. Non può essere vero, non sta succedendo a noi.
Eriksson si contorce in panchina, mentre i suoi uomini non trovano più la misura del campo. La Roma attacca, ma con l'impeto di chi ha paura. Il Lecce invece gioca leggero, come chi non ha più nulla da perdere. E così, a metà ripresa, ancora Barbas scappa via, dribbla, segna. 3-1. È un rete lacerante. I tifosi si siedono, qualcuno inizia a piangere. Pruzzo accorcia, ma il pallone pesa ormai come il piombo, e il tempo scivola via. Finisce 2-3. Lo stadio è una chiesa dopo che si è celebrato un funerale.
A Torino, intanto, la Juventus vince contro il Milan. La Roma si squaglia dopo una rincorsa fotonica, concedendo il 22esimo scudetto ai bianconeri. Il titolo diventa ufficiale la domenica successiva: 3-2 juventino a Lecce, mentre i giallorossi, a pezzi, affondano anche contro il Como.
Qualcuno, nei giorni successivi, sussurra storie di combine, di scommesse, di misteri. La procura apre un'inchiesta, indaga, archivia. La verità resta sul prato, dove il pallone non mente mai. La Roma - secondo la giustizia - ha perso da sola, tradita non dal Lecce ma dal suo stesso sogno di perfezione. E il calcio sorride di lato, come un dio greco che si diverte a spostare il vento proprio quando la vela è gonfia.
Eriksson parla piano, quasi sussurra. Alle telecamere Rai, nel post partita, dice che non c’è nulla da rimproverare ai suoi. Ma si capisce che mente per pudore. Quella Roma era stata la squadra più luccicante d’Italia, forse d’Europa. Una squadra che aveva saputo reinventarsi dopo Falcão, dopo la malinconia. Eppure, alla fine, inciampa sul più umano dei gradini umano: la paura di vincere.
Da allora, ogni volta che l’Olimpico si riempie di sole e speranze, qualcuno rammenta quel giorno. Il Lecce che gioca a viso aperto, la Roma che trema, la festa che si sgonfia.
È una scena che ritorna, come un verso imparato a memoria. Perché nel calcio, come nella vita, non esistono finali giusti. Esistono solo istanti: quelli in cui pensi di avere conquistato tutto, e invece lo perdi per sempre.