Calcio

Uomini forti, destini forti: l'impresa meritata di Spalletti da Certaldo

Eterno secondo (o peggio), incline all'eloquio tracimante, sovente polemico con la stampa il toscanaccio Luciano ha corretto un destino che riservava gioie inespresse

Uomini forti, destini forti: l'impresa meritata di Spalletti da Certaldo

Raggomitolata nel ventre operoso della Val d'Elsa, Certaldo risulta vagamente nota nel mondo per via della succosa cipolla rossa che qui si produce e per quell'altro fatto che sempre qui è nato e morto il Boccaccio. Più spesso però i calciofili senza ritorno, quelli patologicamente avvezzi a conoscere vita, opere e miracoli dei loro beniamini, la identificano come il luogo dal quale ha mosso i primi passi Lucianone Spalletti, il condottiero che dopo una sequela di avversi rimbalzi del destino ha saputo riscattarsi e, al contempo, risollevare una città.

La sua rivalsa collima in fondo perfettamente con quella del Napoli. A lungo hanno accarezzato lo scudetto, senza riuscire ad afferrarlo. E pareva quasi impossibile che ci riuscisse lui con questa squadra, bollata come cumolo di frattaglie di quel che fu il glorioso gruppo trainato dai Koulibaly, dai Mertens, dagli Insigne e dai Fabian Ruiz. L'esercizio di onestà intellettuale che andrebbe compiuto oggi, rammentando perplessità e sberleffi diffusi che avevano per destinatario unico il mercato azzurro, riabilita e ulteriormente corrobora l'impresa del toscanaccio.

Kvara chi? Il Paese si scinde esattamente a metà tra chi d'estate pronunciava questa frase e chi mente. Negli ambienti più raffinati del pallone italico, vale a dire i nostalgici baretti di provincia, era tutto un ciarlare del Milan che si sarebbe ripetuto, dell'Inter che non l'avrebbe consentito, della Juve pronta a riprendersi lo scettro, delle romane che non sarebbero state spettatrici non paganti. Il Napoli veniva relegato, invece, ben al di fuori della carrozza di testa. Anzi, si ipotizzava che da Dimaro a Castelvortuno aleggiasse un'unica aura di depressione, come una cappa soffocante destinata ad avvilire l'ambiente un'altra volta ancora. La squadra che era giunta terza, del resto, era stata per lo più smontata.

E qui entra in scena il nostro. Uno che se n'è sempre fregato ampiamente, del parere altrui. Uno che, comunque, quando è stato messo nelle condizioni ideali per competere - citofonare allo Zenit per maggiori informazioni - il titolo l'ha premuto in valigia. Pelle lucida e olivastra, riflettente. Rughe d'espressione in quantità monumentali. Tutone e scarpini d'ordinanza. A scrutarlo da fuori, a fermarsi superficialmente all'outfit, parrebbe quasi un tipo dimesso. Macché. Lui ti divora con quell'espressione perennemente perplessa di chi pensa che quel che stai dicendo non ha senso e adesso te lo spiega lui. La stessa che venne fuori, spasmo incontrollato, quando il presidente De Laurentiis vaticinò senza preavviso il futuro la scorsa estate: "Faremo di tutto per riportare lo scudetto a Napoli, tutti insieme. Ma se non dovessimo riuscirci, non dovremo deprimerci".

Spalletti e Osimhen
Spalletti con il pupillo Osimhen

E invece, altroché. Simeone e Raspadori sono gli acquisti più convincenti. Per il resto pare che nessuno possa spostare gli equilibri. Lo stesso Osimhen ha segnato di più il secondo anno, ma comunque non pare una macchina da gol. Le premesse sembrano insomma tutt'altro che confortanti. Invece, sbam: 2-5 al Verona e 4-0 al Monza. Squadra che gioca un calcio arioso e penetrante, mentre la vulgata si arricchisce in fretta di un nuovo quesito: "Ma l'hai visto quel georgiano?". Certo, avere avuto a disposizione Kvaradona e il nigeriano nella sua versione più accessoriata ha fatto tutta la differenza del mondo. Ma questo era, resta e rimarrà il trionfo di Lucianone da Certaldo. Che si blocca poi subito contro la Fiorentina e il Lecce, ma dopo espugna la Milano rossonera e lì si comincia a intuire che qualcosa dev'essere cambiato.

Il suo Napoli diventa rapidamente un Leviatano. Suffragano questa tesi una caterva di gare feralmente dominate in lungo e in largo, a tal punto da indurre gli avversari alla resa anticipata. Pare che questa squadra possieda un giacimento interiore inesauribile e quello te lo trasmette una guida illuminata, non un semplice mestierante. Ne esce una stagione famelica, condita da risultati che sgretolano le ambizioni di avversarie di sicuro lignaggio: il 4-1 al Liverpool, il 6-1 all'Ajax, il 5-0 alla Juventus. Spalletti, al solito prolisso, verboso allo spasmo in conferenza stampa, quest'anno distribuisce più sorrisi che polemiche. Succede, quando tutto ti gira nel verso giusto. Aveva patito alla Roma e all'Inter. C'era andato spesso vicino, al bersaglio più luccicante, ma era in fondo rimasto un irrisolto. Un risultatista di successo.

Questa seconda stagione azzurra invece sa di brezza che arriva dal golfo e porta riscatto. Trionfa, Lucianone da Certaldo, coinvolgendo praticamente tutti. Quando manca Osimhen segna Simeone. Se rifiata Kvara impatta bene Raspadori. Ci sono i titolarissimi come Kim, Di Lorenzo o Lobotka - un altro rivitalizzato - ma anche le riserve che si sentono decisive. Uno scarto mentale che segna la differenza abissale tra chi langue e chi conquista. Del resto il confine tra vittoria e disfatta sta tutto racchiuso nella mente: "Uomini forti, destini forti. Uomini deboli, destini deboli. Non c'è altra strada", è il mantra del valoroso conducente di esistenze calcistiche.

Lucianone vince e lo fa mettendo distanza siderale tra sé e gli altri. Motivo d'orgoglio aggiuntivo che irrora la felicità partenopea. Da perdente di successo a capopopolo. Da toscanaccio avezzo alla polemica ad atarassico eroe cittadino. La meravigliosa doppia rivincita di chi ha continuato a crederci, anche dopo essersi preso un paio di anni sabbatici, tra paperi e vigneti. Un titolo 33 anni dopo Maradona. Le cipolle rosse e il Boccaccio si mettano pure in un angolo.

Da oggi a Certaldo - e pure a Napoli, va' - conta solo Luciano Spalletti.

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