Caldo, assenteisti in nome della legge

Cristiano Gatti

Ci sono voluti 144 anni, ma finalmente l'unità d'Italia si può dire compiuta: anche al Nord, nel Nord più estremo, quasi austriaco, non si lavora per l'afa. È un altro muro che crolla. Storicamente, il problema climatico era uno snodo critico della questione meridionale, tanto bene sollevata dall'instancabile Gaetano Salvemini. E comunque persino uno sprovveduto può intuire come mandare avanti attività o semplicemente zappare la terra risulti abbastanza proibitivo a certe temperature, là dove è sudore il solo svegliarsi la mattina. Nel dibattito nazionale, tra luogo comune e pregiudizio, il laborioso Nord ha sempre un po' faticato nel concedere al Sud arretrato quanto meno l'attenuante generica del caldo. Ora, la svolta: alla prova dei 36 gradi, tutto il mondo è paese. E Bolzano è persino più paese del resto del paese. Come rivela il quotidiano Alto Adige, esiste un permesso ufficiale da parte di un'alta carica, nell'istituzione principe della giustizia, che autorizza a lasciare il posto di lavoro quando la temperatura raggiunga picchi insopportabili.
L'autore della storica svolta è Cuno Tarfusser, procuratore del capoluogo altoatesino - o sudtirolese, come in zona pretendono d'essere definiti -, magistrato noto alle cronache per aver affrontato qualche anno fa il rompicapo del mostro di Merano, quel tizio che al calar delle tenebre scendeva sotto i portici dell'ubertosa località montana per giustiziare senza pietà povere coppie di innamorati.
«Io sono anche un datore di lavoro - ha spiegato il giudice -: non posso rischiare che a qualcuno venga il collasso». Grazie a questo editto, datato primi di luglio, i suoi dipendenti sono autorizzati a disertare davanti all'aggressività del nemico, questa stupida estate che si ostina a non essere fresca, ventilata, asciutta come la vorremmo noi, cioè come un condizionatore da regolare col telecomando. «È una questione di rispetto delle persone e del lavoro - aggiunge Tarfusser -, ed è anche un problema di sicurezza». Pazienza se i dipendenti che lavorano nello stesso palazzo, ma non per la Procura, sono esclusi dal beneficio (e ovviamente sul piede di guerra). «In ogni caso - conclude poi rassicurante - devo dire che c'è molto senso di responsabilità: finora soltanto una persona ha lasciato il suo posto per indisposizione...».
Commento senza malizia: da che mondo è mondo, da che Italia è Italia, in qualunque regione e in qualunque posto di lavoro chi sta male se ne va a casa. Grazie al cielo, viviamo in un luogo dove i diritti elementari sono garantiti. Il problema, ovviamente, si complica quando la motivazione non è il malessere, ma il caldo: caldo quanto? Bastano i trenta o bisogna aspettare i trentasei? Lo sappiamo come funzionano le soglie del dolore e della sopportazione: basta osservare le quotidiane risse negli uffici sulla regolazione dei condizionatori. Chi lo vuole freezer, chi lo vuole appena appena, tipo tiepida serata sul lungomare di Sanremo. Ciascuno ha la sua termoregolazione personalizzata: c'è chi schianta a ventisette gradi, perché lui sta «da Dio solo d'inverno, anche a dieci sottozero», e c'è chi invece si presenta fresco come un giglio anche a trentotto, «perché a me il caldo fa bene, io ci starei tutto l'anno, a quaranta gradi: pensa che d'inverno devo dormire coi moon-boot...».
Lo sappiamo: una delle nozioni di geografia più conosciute dall'italiano medio è proprio quella sul clima di Bolzano. Magari molti faticano a dire il nome della montagna più alta (che sia Saint Moritz?), ma sul clima di Bolzano non cade nessuno. Certo, guai farsi ingannare dalle apparenze della carta geografica: quando si parla di caldo, Bolzano - e anche Firenze, non è vero? - può stare pure peggio di Bari e Palermo, perché Bolzano «sta in una buca» (anche Firenze, tutti quanti lo sanno, «sta in una buca»). Ma basta questa particolare situazione per applaudire l'editto di Tarfusser? Di palazzi pubblici privi di condizionatori ne esistono in ogni contrada italiana: purtroppo, sono soprattutto scuole e ospedali, guarda caso dove sono costretti a stare gli italiani più fragili e indifesi. Fortunatamente le scuole aprono con temperature più umane (però, certi giorni di giugno...), ma gli ospedali sono sempre aperti. Lì, certo, ogni decreto d'emergenza è comprensibile, anzi doveroso. Ma il caso di Bolzano risulta sensibilmente diverso. Più che altro, se viene applicato in tutti i luoghi di lavoro che toccano «i 30,2 gradi» - secondo la rigorosa testimonianza di Tarfusser dal suo ufficio -, d'estate l'Italia rischia la catalessi da canicola, tutti in fila stravaccati lungo il marciapiede con il sombrero calato sul davanti, genere grande siesta messicana. Come se ne avessimo bisogno. Come se già non avessimo seri problemi con le paralisi invernali, quelle che ultimamente ci siamo inventati alla prima nevicata.
Forse faremmo meglio ad agitarci meno - che fa calura - e ad ammettere un'amarissima verità: evidentemente, abbiamo un rapporto sempre più deviato con le stagioni del nostro vivere. Non le accettiamo più, non le sopportiamo più. Se è freddo, perché è freddo. Se è caldo, perché è caldo. Quanto a lavorare, ormai ci viene bene solo in particolari condizioni: di temperatura, di ambiente, di calendario, di rapporti umani. Un habitat talmente fragile e sofisticato, da andare in frantumi per un nulla. Di fatto, ormai riusciamo ad esprimerci compiutamente, alla massima efficienza, un giorno alla settimana.

Qualche settimana all'anno. Ma a fine luglio, via, come si fa? E a Bolzano, poi, che sta in una buca. Però attenzione, c'è qualcosa di più insopportabile del caldo: quelli che continuano a parlare soltanto del caldo.
Cristiano Gatti

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