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Calumet della pace tra iraniani e iracheni

Storica visita a Teheran del premier Al Jaafari: previsti accordi militari

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Ha sorpreso, ma non troppo, la visita di Ibrahim al-Jaafari, primo ministro iracheno, a Teheran. Il viaggio era del resto annunciato da diverse settimane. Quello che ha colpito è stata semmai la sua solennità. Al-Jaafari si è portato dietro in Iran non meno di dieci ministri del suo governo e si prepara a firmare un «accordo di sicurezza» che apre la via a una collaborazione, anche militare, tra due Paesi rivali da quando accanto alla Persia millenaria esiste un Irak. L’ultimo episodio è stato, naturalmente, la guerra che, scatenata da Saddam Hussein contro il regime integralista islamico di Khomeini, si è prolungata per otto anni, dissanguando entrambi i contendenti.
Una delle sue conseguenze è stata la reciproca assistenza, anche a guerra finita, dei due regimi dittatoriali a certe forze dissidenti dell’altro. In particolare gli iracheni hanno finanziato e armato per lunghi anni il Mujahedeen Khalq, un’organizzazione di guerriglia opposta alla teocrazia installata a Teheran. Basato in una provincia di frontiera, quel gruppo armato ha giocato ruoli complessi e ambigui nelle crisi degli ultimi anni, culminate nell’attacco americano all’Irak. Adesso il nuovo regime di Bagdad ha raggiunto con quello degli ayatollah un accordo che comprende la consegna alle autorità iraniane dei mujaheddin rifugiati in Irak. «La sua presenza - ha ribadito ieri a Teheran il ministro Alì Yunesi, responsabile del controspionaggio iraniano - è in contrasto con gli interessi fondamentali di entrambi i Paesi. Gli iracheni ci hanno promesso più volte di espellerli e ora pensiamo che lo faranno sul serio».
Non è chiaro se questa clausola sarà contenuta pienamente nell’accordo che al-Jafaari firmerà a Teheran, ma essa si iscrive in un progetto molto più ambizioso di cooperazione fra i due Paesi i cui punti salienti dovrebbero essere due contropartite: l’Iran dovrebbe impegnarsi a sorvegliare meglio la propria frontiera in modo da impedire ai militanti islamici di entrare in Irak per combattere contro il governo e contro gli americani e la «polizia di sicurezza» di Teheran dovrebbe occuparsi di addestrare la polizia del nuovo Stato iracheno. Un do ut des che ha aspetti peculiari.
L’addestramento delle «forze di sicurezza» è infatti la più urgente priorità del governo di Bagdad di fronte all’intensificarsi, contro tutte le previsioni di Washington, della guerriglia e del terrorismo. Da tempo il governo chiede a numerosi Paesi di aiutarlo in questo compito, ma finora ha avuto risposte molto tiepide dalla maggior parte dei Paesi cui si è rivolto, che sono essenzialmente europei. Trasferendo parte di questo compito all’Iran si imboccherebbe senza dubbio una scorciatoia che potrebbe condurre a una maggiore efficienza a breve termine. Con un costo però non ancora calcolato né, forse, calcolabile: un inquinamento del carattere democratico del nuovo Stato, che per operazioni essenziali come la sicurezza interna verrebbe a ispirarsi a una dittatura integralista.
Il tutto in un momento di elevate tensioni fra il regime iraniano e gli Stati Uniti a causa dei progetti nucleari di Teheran e della recente elezione a presidente della Repubblica di Mahmoud Ahmadinejad, che ha fatto carriera nelle Guardie della Rivoluzione khomeinista e che risulterebbe implicato nella presa in ostaggio di diplomatici americani. Più volte George Bush ha definito «coalizione dei volonterosi» quella dei Paesi che sostengono la sua politica in Irak. Non era però previsto l’arruolamento di un Paese che ufficialmente fa ancora parte dell’Asse del Male.

Ma neppure che la leadership politica eletta e incoraggiata dagli americani a Bagdad sarebbe stata sciita come quella integralista di Teheran.

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