Cambia la scuola: promosso solo chi studia

di Stefano Zecchi

Una brutta notizia in realtà molto positiva. Le bocciature dei nostri studenti non dovrebbero essere accolte con favore, ma se riflettiamo su come si è ridotta la nostra scuola dal Sessantotto in avanti, l’aumento di quasi il 20 per cento dei respinti agli esami di maturità, a cui si deve aggiungere anche il numero in crescita dei non ammessi a quella prova, fa sensatamente sperare in un definitivo cambiamento di rotta dell’insegnamento scolastico. Un cambiamento profondo.
Il ministro della Pubblica istruzione ha intrapreso un cammino che i suoi detrattori avevano giudicato irrilevante: solo provvedimenti di facciata, dicevano. Per esempio il voto in condotta, la sostituzione dei giudizi con i vecchi e tradizionali numeri arabi per indicare il grado di profitto degli studenti, le normative contro il bullismo. Poi ci si è messo anche il ministro Brunetta a perseguire i fannulloni nella scuola, che costituiscono una realtà scandalosa per cui l’opinione pubblica ha finito col fare di tutt’un’erba un fascio, confondendo insegnanti eccellenti (ce ne sono: siatene certi) con quelli lavativi e incapaci (ce ne sono molti: siatene certi).
Insomma, un insieme di provvedimenti legislativi che ha segnalato e imposto la volontà governativa di procedere con convinzione verso una scuola seria, attenta al profitto degli studenti e alla capacità degli insegnanti. Ma a questo lodevole impegno c’è da aggiungere dell’altro.
La chiave di volta per costruire la scuola come un edificio stabile sono i professori.
Accorgersi del tempo che passa è quasi sempre molto malinconico. «Quasi», però. Nella scuola, il tempo che passa significa pensionamento degli insegnanti sessantottini, quelli che hanno usufruito di innumerevoli ipocrisie sindacali per superare concorsi fasulli o addirittura per non farli, per ottenere lauree concesse senza nessuna vera qualificazione da parte di docenti universitari demagoghi nella loro ideologia antimeritocratica. Un disastro figlio di troppe complicità che ha danneggiato tutti: una scuola che non funziona è una sciagura per l’intera collettività.
In questo caso, bisogna dire che il tempo che passa è galantuomo, è una ramazza che fa pulizia. Sono convinto che nessun provvedimento di legge abbia effetto se non ci sia anche un tessuto sociale pronto ad accoglierlo. Ora è indubbio che da alcuni anni si è fatta strada l’idea che la difesa del merito e il dovere di premiarlo siano una condizione necessaria per lo sviluppo civile. Quest’idea è sempre stato un punto di forza della cultura liberale che però ha dovuto assistere, in anni passati, alla sua denigrazione e, quindi, all’onda montante di uno sconfortante egualitarismo con il quale si sono avvantaggiati i peggiori. Ma quell’idea era stata umiliata dal radicalismo di sinistra, non annientata. Lentamente, i governi liberali di questi ultimi quindici anni sono riusciti a ridarle forza, a imporla culturalmente nella nostra società. La sinistra ha dovuto ammettere i suoi errori di valutazione, e oggi nessuno, se non qualche irriducibile cretino, ritiene che la difesa del merito nella scuola, come in ogni realtà lavorativa, sia un’offesa alla democrazia.
Una scuola seria, capace di formare e selezionare, in grado di preparare i giovani alla ricerca scientifica e alla professione, la vogliono anche gli insegnanti di sinistra che non hanno nulla a che spartire (se non altro per motivi anagrafici), con la demagogia sessantottina. Il numero in aumento dei bocciati alla maturità vuol dire proprio questo, significa che la scuola è ormai avviata a un cambiamento nel segno della qualità, a cui partecipano tutti gli insegnanti. Loro potranno discutere, secondo i diversi orientamenti di pensiero, sul modo di instaurare stabilmente la meritocrazia della scuola, ma non di affossarla.


L’accortezza del ministro dovrà essere perciò quella di inserire lentamente e progressivamente, senza rotture che possano essere recepite come provocazioni da una parte del corpo docente, normative idonee per proseguire sul cammino della serietà negli studi, e darci finalmente una riforma universitaria adeguata al nuovo clima culturale, ricordando che dagli atenei escono i futuri insegnanti insieme alla classe dirigente del Paese.
Stefano Zecchi

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