Roma - La road-map della crisi è ancora tutta da tracciare. E alla vigilia del primo decisivo banco di prova - il voto di oggi sul rendiconto finanziario - il mondo politico si interroga sugli scenari possibili e sul ventaglio di ipotesi a disposizione per uscire dalle paludi dell’instabilità. La posizione ufficiale di Silvio Berlusconi è quella della resistenza a oltranza, del rispetto del voto popolare e del «no» a ogni ipotesi di ribaltone. Nessun passo indietro, insomma, fino a quando il governo non sarà sconfitto in aula, anche perché «l’opposizione non ha più voti in Parlamento dell’attuale maggioranza ed è quel che più conta». Ma anche un richiamo alla dignità rivolto ai tanti parlamentari eletti in una lista recante la dicitura «Per Berlusconi presidente».
La situazione, però, è in costante evoluzione e nessuno può escludere che la dialettica interna con i colonnelli del Pdl e lo stato maggiore della Lega possa salire di tono e possa verificarsi l’abbandono di altri fedelissimi. Cosa accadrebbe, allora, se Berlusconi si trovasse nella condizione di dover prendere atto che i numeri non ci sono più? La prima ipotesi è quella che vede il premier presentarsi alle Camere, chiedere la fiducia sulla legge di stabilità e sul maxi-emendamento «europeo» e annunciare contestualmente che si dimetterà un minuto dopo. Una eventualità che potrebbe verificarsi anche attraverso il ricorso a una mozione di sfiducia su cui la sinistra sta riflettendo proprio in queste ore. Il tutto accompagnato da un appello del premier per andare a votare il più presto possibile, probabilmente nel febbraio 2012. Un modo per essere coerente con la sua storia, cadendo sul campo e rispettando il bipolarismo e la volontà espressa dagli italiani nel 2008.
La seconda ipotesi è quella che prevede un governo «politico», con un passo indietro di Berlusconi e l’allargamento della coalizione al Terzo Polo e forse anche ai cattolici del Pd. Un esecutivo che potrebbe andare avanti fino al 2013, o fin quando fosse necessario, con il compito di rispondere all’emergenza conti pubblici e, forse, gettare le basi per il futuro schema del centrodestra, allargato a tutte le forze aderenti al Partito popolare europeo. A guidarlo potrebbe essere Gianni Letta - che al momento continua a dirsi «indisponibile» per un incarico di questo tipo - o Renato Schifani. Continua a circolare anche una ipotesi Angelino Alfano ma Pier Ferdinando Casini - che pure un anno fa aveva auspicato lui stesso questa soluzione - ora alza la posta e fa sapere che potrebbe accettare il nome del segretario del Pdl soltanto se ci fosse un via libera (o anche soltanto un accordo di desistenza su alcune materie) da parte del Partito democratico.
La terza ipotesi è quella che vede la formazione di una sorta di «governo del presidente», ovvero un esecutivo tecnico guidato da Mario Monti (che ha già offerto la propria disponibilità). Un nome, quello dell’ex commissario europeo alla Concorrenza, che incontrerebbe sicuramente il gradimento dei mercati. Difficilmente, però, si potrebbe scommettere sulla tenuta politica di una compagine in cui si ritroverebbero insieme Casini e Vendola, Bersani e Di Pietro, la Cgil e la Confindustria oltre a un pacchetto di transfughi del Pdl. Una maggioranza «fantasiosa», variegata e poco affiatata (per dirla con un eufemismo), chiamata oltretutto ad affrontare un pacchetto di misure lacrime e sangue sotto l’incalzare dello spread.
Facile prevedere che più che sposare lo spirito delle richieste della Bce, percorrendo davvero la strada delle riforme strutturali, Monti finirebbe per imboccare una scorciatoia: quella della patrimoniale unita probabilmente alla reintroduzione dell’Ici. Insomma in questo crescendo di pressioni incrociate, di instabilità e di numeri ballerini non è detto che la soluzione invocata da molti non finisca per diventare essa stessa il problema.
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