Dalla camicia nera alle toghe rosse, la deriva di Gianfranco

Con il suo metodo l'ultimo pm d'Italia potrebbe decidere le sorti del Paese a scapito della democrazia. Senza Silvio, Fini sarebbe il capataz di un partitino nostalgico del fascismo

In questo Paese, tra politica e giustizia c’è un rapporto come tra cane e gatto. Non c’è alcun rispetto l’una per l’altra. Solo sospetti.
Da quasi vent’anni però - dall’epoca di Mani pulite - i giudici prevalgono sui politici senza per questo essere migliori. Basta considerare i tempi biblici dei processi e la moltitudine degli errori giudiziari. I politici, stanchi di prendere ceffoni gratuiti, hanno anche pensato ultimamente di ripristinare la più ampia immunità parlamentare voluta all’origine dalla Costituzione e ristretta con Tangentopoli. L’assurdo è che, mentre ne discutevano, sono riusciti invece a darsi un’altra zappa sui piedi. Poche settimane fa, hanno stabilito un’eccezione al divieto di intercettarli senza previa autorizzazione delle Camere: i giudici potranno utilizzare i colloqui dei parlamentari se captati non sulle loro utenze ma su quelle di terzi. La beffa è doppia: anziché aumentarsi le difese, come era nelle intenzioni, le hanno diminuite; proprio mentre il Parlamento discute come limitare le intercettazioni, ne hanno allargato l’ambito. Questo la dice lunga sulla lucidità di deputati e senatori.

Cova nei politici un cupio dissolvi. Ma all’origine c’è la miope volontà di utilizzare l’arma giudiziaria per risolvere le beghe tra loro. Ognuno, sperando che non capiti a lui, profitta dell’inchiesta sul collega per liberarsi dell’avversario. Poi, tenta di stornare da sé la stessa mannaia facendosi furbescamente paladino delle toghe e della loro «meritoria attività di pulizia».

Tra gli zelatori recenti dell’attivismo giudiziario, si è distinto Gianfranco Fini. La sua ultima uscita è stata: «Chi è indagato deve dimettersi da ogni incarico politico». Prima di lui lo aveva detto solo Totò Di Pietro, un uomo dalla inarrestabile vocazione di brigadiere. La mossa di Fini è il passo decisivo per consegnare ai tribunali la residua libertà di parlamentari e partiti. Se il criterio fosse effettivamente adottato, ogni singolo pm di ogni più remota procura d’Italia - il più fesso, il più ignorante, il peggio maldisposto - potrebbe impalare il governo più popolare e votato.

Il presidente della Camera, che in passato aveva criticato la partigianeria di certa magistratura, si è convertito strumentalmente al giustizialismo. Da un lato, si assicura contro iniziative che potrebbero riguardare lui, i suoi amici e parenti stretti. Dall’altro, attacca per questa via i molti che nel Pdl sono nel mirino di giudici non di rado strabici. Il primo, ovviamente, è il Cav che ha più cause in corso che pori della pelle. Dicendo che chi è indagato deve dimettersi, Fini ha inteso in primo luogo Berlusconi. Non ha avuto, naturalmente, il coraggio di dirlo, vuoi per la sua natura allusiva, vuoi perché avrebbe dovuto trarne le conseguenze. Sono infatti diversi lustri che cresce e ingrassa grazie al plurigiudicato.

Quando il Cav lo prese sotto la sua ala, Gianfranco era il pittoresco e nostalgico capataz di un piccolo partito emarginato che si ispirava al fascismo. Condotto per mano dal manigoldo che oggi vorrebbe epurare, ha trasformato il Msi in An e ha cominciato a viaggiare in Europa. Le sue amicizie, un tempo limitate a Le Pen, si sono dilatate nel vasto mondo. Incapace, in passato, di farsi eleggere sindaco di Roma è riuscito poi a essere vicepremier e ministro degli Esteri. Ha stretto le mani di capi di Stato, è stato ricevuto con ogni onore a Gerusalemme nonostante il mussolinismo degli esordi. Ora, è presidente della Camera. Però, non passa giorno che non tenti di azzannare, come la pariniana vergine cuccia, il piede che lo ha catapultato verso cotante altezze. Se c’è un uomo che non si è fatto da sé, questo è Fini.

Per Gianfranco, dunque, chiunque susciti le attenzioni di una toga deve ritirarsi a vita privata. Il principio, in sé, si può accettare. Parte dei politici sono al di sotto di ogni sospetto. Maneggioni, arroganti, con un forte senso dell’impunità. Altri però sono del tutto onesti o solo lievemente peccatori. Se la giustizia, da noi, fosse neutra e celere, qualche mese da Cincinnato ci può stare. Ma le cose stanno all’opposto. Ben oltre la metà degli imputati di Tangentopoli sono risultati alla fine innocenti. Ma per proclamare la loro estraneità alle accuse ci sono voluti decenni. Imputato di corruzione, il socialista Rino Formica è stato assolto dopo 17 anni. In omaggio alla teoria pudibonda di Fini si ritirò dall’agone a 66 anni. Quando è stato riabilitato, due mesi fa, ne aveva compiuti 83. Per la stessa accusa, in Germania, Helmut Kohl è stato sulla graticola sei mesi. Riconosciuto colpevole, ha risarcito le somme intascate e, senza isterie, è tornato rispettabile come prima.

Essendo da noi tutto diverso, si può capire che i politici non ripieghino al primo assalto. Non si è dimesso da premier nel 2008, Romano Prodi, accusato di abuso d’ufficio dal pm De Magistris. Anzi, ha reagito da par suo e la procura di Roma ha avocato a sé l’inchiesta, archiviando la pratica: per il nostro piacere, nemmeno un giorno di vacatio da Palazzo Chigi. Idem per Max D’Alema, ministro degli Esteri del medesimo Prodi, preso di mira dal gip, Clementina Forleo. Per la signora, Max aveva concorso in aggiotaggio nell’ambito della scalata alla Bnl e c’erano - a suo dire - delle intercettazioni a inchiodarlo. Clementina chiese alla Camera di poterle utilizzare. Ma D’Alema, impennandosi, disse che al tempo dei fatti era parlamentare europeo e pretese che fosse l’Aula di Strasburgo a pronunciarsi. Insomma si difese, invocando lo scudo dell’immunità Ue, anziché dimettersi come oggi il suo amico Fini vuole che facciano gli scalzacani del Pdl, Berlusca, Verdini, Cosentino & co. E l’ebbe vinta perché i colleghi europei negarono l’uso delle registrazioni lasciando Clementina con le pive nel sacco.

Nemmeno - udite - si è dimesso, un anno e mezzo fa, il pupillo di Fini, Italo Bocchino, altro santarellino dell’ultima ora. Italo - sospettato di turbativa d’asta e di rapporti poco chiari con un imprenditore - ha aspettato la sentenza di assoluzione continuando a ricoprire la carica di vice capogruppo dei deputati Pdl. Non risulta che, nelle more, Gianfranco gli avesse ingiunto di dimettersi. Ma gli amici, si sa, sono piezze ’e core.

Diciamo, per concludere, che la regola finiana arriva fuori tempo massimo.

Non l’ha rispettata quasi nessuno e chi l’ha fatto - visti i tempi biblici delle sentenze - si è buggerato da solo, autocondannandosi da innocente. Fini queste cose le sa. Se oggi fa il virtuoso sulla pelle del Berlusca, è che spera di cavargliela per rivestirla lui. Come se bastasse il manto per proclamarsi re.

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