Il Camus visto da Amelio è troppo «corretto»

Per i comunisti era un reazionario, per la gente di destra un populista. Fatto sta che Albert Camus, premio Nobel per la Letteratura nel 1957, rivive negli occhi di Gianni Amelio, uno dei nostri registi più intellettuali. Nel film Il primo uomo, si parte dal manoscritto incompiuto di Camus, 144 pagine come prima parte d’una trilogia mai portata a termine, e si approda a un biopic. «Nessuna autobiografia può appassionarci se non tocca in parte la nostra vita. Nell’infanzia di Camus ad Algeri ho ritrovato le tracce della mia Calabria», afferma Amelio. Tutto condivisibile, se non fosse per l’abisso artistico ed esistenziale che separa l’autore francese dal nostro cineasta. Per fortuna, Catherine Camus, figlia dell’autore, ha sorvegliato l’uso pubblico dell’immagine paterna, «perché non sopportava che sul tappeto rosso sfilasse qualcuno che poteva arrecar danno alla figura di suo padre», spiega Amelio, il cui film è stato premiato al festival di Toronto. Per pararsi le terga, l’erede di Camus ha stipulato con i coproduttori italo-francesi del film un contratto in cui a lei spetta il controllo finale dell’immagine di suo padre: se a film visto non le fossero tornati i conti, il film non sarebbe uscito. Sceneggiatura sorvegliata a parte. Un rischio per i produttori, ma infine Il primo uomo è una resa calligrafica (Ingres, su tutti, e gli orientalisti) di un’esistenza divisa tra corse infantili sulle strade d’Algeria, dove Camus crebbe, e risarcimenti affettivi da parte d’una madre analfabeta, dignitosa, scabra. E il padre, mai conosciuto, resta sullo sfondo.

Certo, nel film non c’è nulla del Camus che fece interpretare Caligola a Gérard Philippe e Amelio risulta irritante quando azzarda: «È apocrifa la frase di Camus: “Tra la giustizia e mia madre, scelgo mia madre”», per mettere in bocca al protagonista (Jacques Gamblin) una frase politicamente corretta. Un conto è il cinema, un altro la vita vera.

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