«Cancellare la legge? Non abbiamo i soldi»

da Roma

Il superamento totale dello «scalone» previsto dalla riforma Maroni (il passaggio nel 2008 da 57 a 60 anni per l’accesso alla pensione di anzianità a fronte di 35 anni di contributi) ha un costo «non compatibile» con la situazione del Paese. In altre parole, se si vorrà rinunciare alla riforma approvata dal precedente governo, questa scelta non potrà che pesare sulla finanza pubblica e sui conti della previdenza. Ad ammettere quello che fino ad oggi nella maggioranza si preferiva tenere un po’ sotto traccia è stato il ministro del Lavoro Cesare Damiano. Quello dell’esponente Ds è soprattutto un avvertimento alla ala radicale del governo. Un modo per dire che a gennaio il confronto nella maggioranza e con le parti sociali partirà dalla legislazione vigente, il cui supermento è solo «una possibilità» da valutare. La cautela di Damiano non è piaciuta al suo collega Paolo Ferrero, ministro alla Solidarietà sociale ed esponente di Rifondazione comunista, sicuro che la copertura per la rinuncia alla legge Maroni si troverà. «Dopo una Finanziaria da 34 miliardi - ha osservato - dire che non riusciamo a trovarne 4, mi sembra un eccesso di prudenza». L’obiettivo della sinistra radicale resta quindi l’abolizione tout court dello scalone senza ulteriori interventi. Una misura che costerebbe appunto 4 miliardi nel 2008 e 7-8 miliardi a regime. Troppo secondo Damiano e anche a giudizio degli esponenti della maggioranza che ieri si sono appellati al Dpef.
Ma anche le misure di compromesso, come quelle allo studio del ministero del Lavoro, avranno un costo e peseranno nelle prossime finanziarie. Lo «scalone» della Maroni potrebbe essere sostituito con gli «scalini», più volte citati da Damiano, che renderanno più graduale l’innalzamento dell’età pensiabile. Ai tavoli che partiranno a gennaio troverà sicuramente spazio anche la proposta della Cisl che punta a sostituire l’innalzamento dell’età con la «quota 95», cioè una somma del’età e degli anni di contribuzione. Ipotesi che il ministro del Lavoro ha definito «interessante» e che non dispiace nemmeno a Cgil e Uil. Resta da definire come verranno finanziate tutte queste alternative alla legge del governo Berlusconi. Difficilmente potranno essere coperte con aumenti dei contributi, visto che il governo ha già giocato questa carta con la Finanziaria 2007. Impossibile attendere risparmi da eventuali «incentivi» per chi ritarderà volontariamente la pensione. Del tutto esclusi, i meccanismi della riforma Dini più volte evocati dal governo.

La riforma del ’95 prevede che ogni dieci anni si verifichi lo stato dei conti previdenziali e che si adattino i coefficienti sulla base dei quali si calcolano le pensioni. Su questo terreno i sindacati hanno già deciso una linea comune ed è un «no» secco a qualsiasi revisione.

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