CANETTI Un atto di fede nell’umanità

CANETTI Un atto di fede nell’umanità

Nel 1972 l’Austria proclamò l’anno della letteratura e inviò i suoi più autorevoli scrittori a testimoniare la specificità e l’autonoma maturità della sua letteratura. Per l’Italia fu scelto un autore che allora era veramente poco noto: Elias Canetti.
Io ero all’inizio della mia attività di docente presso l’Università di Parma e tentai di fare gli onori di casa a Canetti. Ci furono degli incontri con studenti di Parma e di Cremona con letture da parte dell’autore e con dibattiti. Accompagnai l’illustre ospite alla stazione e qui successe un episodio quasi surreale. Erano gli anni degli scioperi «duri»: il traffico ferroviario rimase bloccato per una decina di ore. E Canetti cominciò a raccontare, a narrare per ore e ore la sua vita, quella che anni dopo confluì nella sua autobiografia. Raccontò delle sue origini «sefardite», di quella comunità ebraica che alla fine del ’400 fu scacciata dalla Spagna dalla cattolicissima regina Isabella e venne generosamente accolta dal sultano nei suoi domini sull’Egeo e il Mar Nero.
Infatti Canetti (il nome è un toponomastico di un villaggio vicino a Valencia) nacque a Rustschuk, che è oggi bulgara, proprio cento anni fa: il 25 luglio 1905. Con orgogliosa ironia mi diceva che il suo primo passaporto era dell’Impero Ottomano. A casa si parlava «ladino», ovvero giudeo-spagnolo, un idioma praticamente scomparso, per secoli gelosamente parlato dalla civilissima comunità sefardita in Oriente, una comunità che manteneva vive, con commovente fedeltà, le tradizioni di una Spagna medievale tollerante quando gli ebrei potevano espandere la loro fiorente cultura sotto il dominio dei mori. Un capitolo di storia della civiltà che oggi dovremmo rimeditare profondamente.
I genitori di Canetti avevano studiato a Vienna, la città che più attraeva per la sua vivacità e apertura alla modernità. Erano due appassionati melomani e anche di ritorno a Rustschuk furono fedeli al loro amore parlando la loro lingua segreta: il tedesco. La famiglia si trasferì per contrasti tra il padre e il nonno paterno a Manchester e qui il padre morì improvvisamente e prematuramente. Fu allora che la madre regalò a Elias, il primogenito, che era allora un bambino di appena otto anni, la grammatica tedesca. Un dono fortemente simbolico che lo segnò per sempre. È straordinario come Canetti, che divenne uno dei maestri della letteratura tedesca del Novecento, cominciò tardi a conoscere quella che sarà la lingua veramente «materna». Mentre i fratelli in seguito scelsero altri idiomi, Elias scelse il tedesco e studiò in Svizzera durante la Prima guerra mondiale, a Francoforte e poi a Vienna, che divenne la sua città, la capitale della sua anima e della sua cultura.
La Vienna del primo dopoguerra era ancora il laboratorio più avanzato della modernità, con Freud e la scuola psicoanalitica, con il Circolo filosofico neopositivista, con le ricerche di linguistica di Wittgenstein, con lo sperimentalismo letterario di Musil, Hofmannsthal e Broch, con la grande tradizione di critica economica, con la musica dodecafonica e con la spietata critica di Karl Kraus al nuovo volto del potere: quello dei media. E Kraus divenne il suo maestro, il suo idolo e il suo tiranno, un dittatore dello spirito esigente, possessivo, grandioso.
L’emancipazione dalla fascinazione krausiana segna la nascita intellettuale e letteraria di Canetti che scrive dal 1930 al 1935 il suo unico romanzo Die Blendung (Auto da fé) che resta una delle opere letterarie più coinvolgenti della scrittura novecentesca, una sorta di versione novecentesca del dramma del Don Quijote, di nuovo un uomo che perde il contatto con la realtà rifugiandosi in un mondo cartaceo, in un universo libresco che esplode in un immenso incendio distruttivo e insieme catartico.
Intanto un altro ben più funesto dittatore, Hitler, minacciava l’Europa, l’Austria e Canetti, che riparò fortunosamente in Svizzera (grazie all’intervento di Thomas Mann) e poi in Inghilterra. La lotta politica di quegli anni, la Vienna lacerata da scontri tra fazioni contrastanti, il rogo del Palazzo di Giustizia, in cui Elias comprende che la questione della sua vita intellettuale è quella di sviscerare il rapporto morboso e mostruoso tra Masse und Macht (Massa e Potere), l’opera straordinaria cui lavorò per trent’anni che fu il capolavoro saggistico della sua vita e la massima testimonianza letteraria di una visione allucinata, rapsodica e intrigante del nodo complesso e oscuro del Novecento.
Dal 1977 comincia a uscire la sua autobiografia, formata da un trittico meraviglioso e intrigante, degno delle massime «vite» di scrittori. Intanto era morta Veza, la prima moglie, colei che in un certo senso l’aveva salvato dal regime di matriarcato imposto dalla potente figura della madre. Canetti nel 1972 sposa in seconde nozze un’archeologa svizzera e hanno una bambina, Johanna.
Ricordo che quando nel 1973 l’invitai di nuovo in Italia mi rispose che non avrebbe più viaggiato per non sottrarre un giorno della sua vita ormai in declino alla figlia. Il destino stabilì diversamente: Hera, la seconda moglie, morì precocemente e Elias e Johanna furono insieme fino all’estate del 1994, quando a Zurigo morì il grande vecchio della letteratura austriaca che nel 1981 aveva ricevuto il Premio Nobel.
Oggi la sua opera abbraccia raccolte di saggi di grandissimo rilievo antropologico e storico-culturale come pure drammi (pubblicati da Einaudi, mentre tutte le altre opere sono state edite da Adelphi), che suscitarono polemiche violentissime cui partecipò lo stesso Adorno prendendo vigorosamente le difese di Canetti.

La sua figura è emblematica di una stupefacente stagione dello spirito e dell’arte: Elias Canetti fu uno degli estremi rappresentanti di una Mitteleuropa che non esiste più, un autentico melting pot di razze, religioni, etnie, tradizioni diverse che riuscirono per secoli - pur fra contrasti e tensioni - a convivere e a tollerarsi a vicenda.
Dalle pagine di Canetti affiora un’analisi spietata della modernità insieme con una tenue malinconica nostalgia per il tramonto di un mondo appartato e più umano e meno ipocrita e retorico del nostro tempo.

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