Lo hanno fatto con Verona; l’hanno ripetuto con Ponticelli; hanno creduto di aver trovato la prova definitiva con i fatti del Pigneto e oggi, vedrete, lo sosterranno anche a proposito di quanto accaduto a Fucecchio, dove un imprenditore ha ucciso a colpi di pistola un ladro che si era introdotto nottetempo nella sua villa. Storie diverse, ma con un denominatore comune: si prestano ad ammantare con la parvenza della verità (o almeno della verosimiglianza) la nuova parola d’ordine della sinistra, e cioè che il governo Berlusconi sta spingendo l’Italia verso una deriva xenofoba e giustizialista.
Il refrain è sempre lo stesso: «Inutile prendersi in giro», tuona il mite Antonio Polito dalle colonne del Riformista, riferendosi all’ipotizzato reato di clandestinità: «è stato creato un clima adatto ai raid come quello del Pigneto». Più raffinato, Adriano Sofri su Repubblica, sotto il sobrio titolo «Il paese dei giustizieri», parla di «impulso irresistibile a fare da sé, a mettersi in proprio, che va attraversando la penisola, dalle ronde alle passeggiate notturne ai roghi dei campi rom. Un episodio, diciamo, di sussidiarietà. Ritorna lo Stato, e l’intendenza lo precede, con la fanfara». Va per le spicce il direttore dell’Unità, Antonio Padellaro: «Esiste eccome un robusto nesso tra l’ondata di raid nazifascisti con morti (Verona) e feriti e l’incessante straparlare di fermezza da parte della destra». Priva di dubbi anche la graziosa quanto partigiana (quindi molto partigiana) Rula Jebral: «Così si finisce per autorizzare lo sviluppo e la diffusione della giustizia fai da te. Ecco dove porta la logica delle ronde». Salvo poi annaspare alla domanda: che cosa fare? «Il processo d’integrazione sta subendo delle preoccupanti battute d’arresto. Bisogna ripartire da capo». Da dove? Semplice: da capo. Qualunque sia questo «capo».
L’effetto è straniante, come quello di chi guarda il mondo con un cannocchiale rovesciato. Il sintomo diventa la causa. E il medico, o l’aspirante tale, si trasforma nell’untore. Tutto per il rifiuto di riconoscere un dato di fatto, e cioè che anni passati a nascondere sotto il tappeto il problema delinquenza e il problema immigrazione illegale (spesso, anche se non necessariamente, intrecciati tra loro) hanno portato a uno stato di esasperazione che sfocia in episodi disgustosi o, ancor peggio, serve da paravento a fuorilegge che in questo clima consumano regolamenti di conti, allungano le mani sul territorio (Pigneto), difendono i loro loschi traffici (Chiaiano). Per negare tutto questo, si riporta a zero l’orologio della storia. Come se prima del 14 aprile scorso l’insicurezza non fosse un nodo che serrava la gola a parte del Paese. Come se ai tempi in cui il premier aveva le fattezze finto-bonarie di Prodi non ci fossero imprenditori che uccidevano i ladri, tensioni con gli zingari, raid a sfondo razzista.
In realtà affrontare di petto la questione criminalità e la questione immigrazione è, all’opposto di quanto si sostiene, l’ultima speranza di fermare la deriva razzista che l’ignavia passata purtroppo ha già avviato. Molti di quelli che oggi sparano sul governo probabilmente lo sanno, ma si rifiutano di ammetterlo anche a se stessi.
C’è un esempio che illustra meglio di ogni altro discorso la malafede con cui si cerca di far passare l’unico messaggio a cui una parte politica ancora sotto shock affida la propria affermazione di esistenza in vita come «opposizione». Quando a Verona, all’inizio del mese, fu ucciso a calci e pugni il povero Nicola Tommasoli, tutti i giornali d’Italia, di destra o di sinistra, mandarono nella città scaligera i loro inviati. E tutti, indistintamente, riportarono testimonianze che raccontavano come da anni alcuni giovinastri percorressero di notte le vie del centro cercando e spesso trovando la rissa, sfogando una violenza per la violenza che di politico ha davvero poco («griffe delle quali neppure comprendono il significato», ha definito lo psichiatra Vittorino Andreoli i simboli nazisti sfoggiati da alcuni di loro). Ripeto, la storia durava da anni: anche quando al governo non c’era Berlusconi ma un professore di Bologna, anche quando sindaco della città non era il leghista Tosi bensì il prodiano Zanotto.
Ma le cronache che questo (spesso loro malgrado) illustravano, erano corredate dai commenti dei vari Colombo, Padellaro, Lerner, Sansonetti, Parlato, Polo che ci spiegavano come l’omicidio fosse frutto del clima avvelenato creato dalla vittoria del centrodestra alle elezioni politiche. Come dire: mai lasciare che la verità rovini la favola cattiva che vogliamo narrare...
Massimo de’ Manzoni
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