Milano, 1913. In una notte di fine estate, una ragazza, una giovane sciantosa che sogna di riscattare la sua vita, viene aggredita violentemente da chi, per mestiere, dovrebbe far rispettare la legge e difendere i più deboli. Lei si chiama Elvira Rosa Ottorina Andrezzi, per parenti e amici è semplicemente la Rosetta, giovanissima cantante milanese di sicuro talento (altrimenti non sarebbe mai arrivata al suo debutto al Salone Margherita di Roma dove incontrò Ettore Petrolini).
Era graziosa la Rosetta: l'unica foto di lei arrivata fino a noi mostra un viso malinconico da bambina con una frangetta cortissima. È avvolta in un drappo chiaro che lascia intravedere il seno. Un'immagine che riporta alle foto Belle Epoque delle "signorine di facili costumi" e questo sarebbe stato il suo destino ancora per molti anni, se non avesse scelto di guadagnarsi da vivere con il canto, con le serate a teatro che diventò il suo mondo, tanto lontano da un'infanzia misera che l'aveva portata nei letti dell'alta borghesia milanese a tredici anni, venduta dalla madre come merce fresca al miglior offerente. Ma un giorno Rosetta aveva scoperto la passione per la musica e la sua voce di seta e velluto; così aveva deciso di prendere le distanze dagli anni bui dell'adolescenza, per poter calcare le tavole del palcoscenico, sognando di diventare come Lina Cavalieri. Nell'autunno del 1913 avrebbe dovuto debuttare al Gambrinus di Napoli; la sua vita stava cambiando definitivamente. Immaginava il mare che non aveva mai visto, abiti scintillanti e il suo nome sulle locandine. Anche Genova la stava aspettando e lei, figlia della ligèra milanese, avrebbe visto altre città in veste di artista.
Rosetta aveva cominciato a vivere il sogno, ci stava dentro e lo trasformava in realtà. Non c'era nessuna magia, solo la sua forza di volontà e quella voce che era un dono per cui ringraziare quotidianamente Dio nelle sue preghiere. Ma il suo viso, le sue forme, la sua giovinezza, avevano attratto un questurino, tale Musti, un uomo violento che aveva per la ragazza una vera ossessione: doveva diventare sua per sfizio, per desiderio, per possesso, forse solo per abuso di potere. Come poteva rifiutarlo una come lei, una che si era messa grilli in testa e pensava di diventare una grande artista. Lui le avrebbe ricordato sempre da quale mondo veniva, un mondo di ladruncoli e alcolizzati, esseri miserabili, non tutori dell'ordine come lui. Dunque Rosetta de Woltery (questo il nome d'arte che si era scelta) doveva solo sentirsi onorata se lui la voleva come amante.
Cominciò a seguirla, a farsi vedere tra il pubblico nella platea del piccolo Teatro San Martino, vicino a Piazza Duomo, ad apparire improvvisamente sulla sua strada. La paura di lei gli piaceva, lo spingeva a continuare a giocare come il gatto con la preda. Lei continuava a rifiutarlo, decisa e forte, innamorata della vita nuova e spaventata da quell'uomo sgradevole con il buio dentro agli occhi. Fu così che una sera di fine agosto, quando i venti di guerra non erano così lontani, mentre Rosetta parlava con musicisti e ballerine delle prove di balletti e canzoni, una pattuglia di dieci agenti armati di daghe, capeggiata dal Musti, si avvicinò: il gruppo si disperse e il sogno di Rosetta finì sotto i pugni e i calci dell'uomo dagli occhi bui. Portata all'Ospedale Maggiore dal suo stesso assassino, sul registro i medici scrissero: "Elvira Andrezzi di anni diciotto, di professione cantante, domiciliata e nata a Milano il 1 Settembre 1895. Fu accolta il 27 Agosto 1913 alle ore 2:00, in Sala Tentati Suicidi per avvelenamento. Deceduta lo stesso 27 Agosto alle ore 11.30 per avvelenamento con sublimato corrosivo". Un'inesattezza e una menzogna sono dichiarate: diciotto anni li avresti compiuti dopo cinque giorni e al suicidio col "veleno da borsetta" usato dalle donne infelici, non ci avresti pensato mai, tu, all'alba di una vita vera. Solo una cosa, certamente, ti avrebbe fatto piacere: quel riconoscerti la professione che amavi. Eri una cantante, il tuo certificato di morte lo diceva. Morivi artista, signorina Andrezzi. E questo sei.
Raccontarti è fare chiarezza, è quello che provò a fare l'allora direttore dell'Avanti!, un giovane Mussolini socialista, senza riuscirci, nonostante i testimoni del tuo massacro. Il tuo assassino fu allontanato da Milano e trasferito a Genova, per non destare clamori e mettere in difficoltà la Questura. Ma tu vivi, bellezza mia.
Vivi nelle canzoni della ligèra che venne al tuo funerale (gli uomini in nero, col vestito buono, le donne in bianco per celebrare la tua giovinezza) quella mala che ti ricordava con la voce di Milly e di Nanni Svampa. "Hanno ammazzato un angelo, di nome la Rosetta". E dopo centododici anni, molti, troppi nomi si aggiungono al tuo.*Autrice del romanzo "Folisca" (Arkadia) che racconta la storia di Rosetta