Roma

LA CAPITALE DEL GUSTO

Confronto tra le capitali del popolare alimento Quante differenze per storia e preparazione

Chiara Cirillo

Certo, c’è quella genovese, la focaccia toscana e la piadina romagnola o la schiacciata calabrese. Regione che vai, è il caso di dirlo, pizza che trovi. La pizza sa trasformarsi a seconda delle tradizioni e dei gusti locali. Ma la napoletana prima e la romana poi, sono le uniche che hanno oltrepassato l’Oceano conquistando i palati di ogni nazione. E se la romana, come la conosciamo oggi, trova le sue origini a fine Ottocento, quella napoletana è anche «blasonata».
Per sapere come nascono queste due tradizioni, vicine, eppure così diverse, abbiamo raggiunto chi, dell’una e dell’altra, se ne intende davvero: Stefano Di Michele della Soffitta (via dei Villini, 1/e tel. 064404642) ci guida alla scoperta della più tipica tradizione napoletana a Roma. Insignito per questo anche di una targa dall’onorevole Bassolino, ci immerge nel morbido (è il caso di dirlo) mondo della pizza napoletana che elevata a simbolo della tradizione culinaria italiana, come tutti i piatti celebri, cela una storia curiosa. È il 1889 quando la famiglia reale dei Savoia trascorre un breve periodo di vacanza nella reggia di Capodimonte. In molti, tra artisti e gentiluomini che vanno in visita ai reali, restano incantati dalla pizza preparata nella reggia. È il boom. Incuriositi da questo famoso piatto, arriva a palazzo il più famoso pizzaiolo dell’epoca, don Raffaele Esposito, per prepararne alcune. In realtà la vera maestra del forno è la moglie di don Raffaele, donna Rosa, creatrice indiscussa dei tre tipi di pizza offerte ai reali. La prima, «Mastunicola», è condita con sugna, formaggio e basilico; la seconda, conosciuta come «Marinara», è con aglio, olio e pomodoro; l’ultima con i colori della bandiera nazionale «interpretati» da mozzarella, pomodoro e basilico. L’entusiasmo della regina nei confronti della versione «patriottica» porta il pizzaiolo partenopeo ad un scelta storica: la pizza con mozzarella, pomodoro e basilico si sarebbe chiamata come lei: Margherita. «Anche se la margherita che assaggiò la regina, non è come la conosciamo noi oggi - ci svela Di Michele - era a coccarda: il verde al centro formava un fiocco di basilico e la mozzarella non arrivava ai bordi come oggi, il bordo era rosso di pomodoro che quasi straripava dall’impasto».
Con la signora Luciana della pizzeria Giacomelli (via Faà di Bruno, 25 tel. 063725910), ci inoltriamo invece tra i segreti della vera pizza romana, che, se «vera e originale, è bassa, croccantella, con la crosta leggermente abbrustolita, bagnata di olio extravergine di oliva» e su questo non si transige. Pur non avendo origini reali, anche la pizza romana racconta la storia della Capitale. «Siamo alla fine dell’800, i forni sono solo a legna, e quando sono accesi da tante ore e hanno sfornato centinaia di pagnotte, la brace arde forte e il forno scalda troppo, bruciando il pane e non cuocendolo all’interno. Come fare? I mastri fornai aguzzano l’ingegno e capiscono che posizionando delle lastre di pasta di pane lungo le pareti del forno, riescono ad attutire il calore permettendo la giusta cottura del pane. Ma scoprono anche che le pagnotte che non si sono bruciate del tutto, con un goccetto d’olio e un pizzico di sale sono buonissime!». Da qui la tradizione di cuocere pizze basse e scrocchiarelle. Ma oltre alla storia curiosa e blasonata della napoletana e quella più popolare della romana, ciò che differenzia le due sono soprattutto cottura e impasto: «La napoletana è alta circa 4 centimetri, motivo per cui rimane più morbida, e nell’impasto si mette meno lievito della sorella capitolina, alta solo un centimetro circa - ci spiega Di Michele, - pur lievitando ben quattro ore in più. E poi la pasta non si secca anche se cuoce a temperature più alte (circa 400 gradi). La romana invece si asciuga più facilmente anche perché resta nel forno qualche secondo in più».
C’è da aggiungere poi alla storiografia della pizza, che già gli antichi romani preparavano la pizza, a quel tempo chiamata «pinza», impastando orzo, acqua e sale fino ad ottenere una pasta omogenea che mettevano a cuocere in forni conici. Certo di gusto e di storia ne passa, siamo ben lontani dalla pizza che mangiamo oggi, ma già allora veniva condita con miele, sale grosso o erbe aromatiche.

La dialettica Roma-Napoli è antica, anche se, alla fine di tutto, è solo questione di gusto: il vostro.

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