Politica

La capitale della parola

Tra tante interviste e piccole polemiche e osservazioni sul degrado delle città anche per gli interventi di architetti illustri che sembrano piuttosto pensare a un loro mausoleo che al decoro urbano e al rispetto degli spazi (penso al contenitore di Richard Meyer per l'Ara Pacis a Roma o all'intervento di Gae Aulenti in Piazza Cadorna a Milano), non posso dire di avere ancora indicato gli obiettivi e i progetti del mio nuovo impegno di Assessore alla Cultura del Comune di Milano. Al di là della programmazione delle mostre e delle stagioni teatrali, almeno su un punto vorrei richiamare l'attenzione e indicare un tema dominante.
Vorrei che Milano diventasse il luogo della libertà di parola. La città dove quelli che sono costretti a tacere nei loro Paesi, o che testimoniano di incredibili condizioni di vita determinate da dittature e governi non democratici possono parlare. In passato abbiamo sentito la voce del Dalai Lama e la storia del popolo tibetano. Ma in Birmania, in Cina, in Turchia, in molti Paesi arabi, a Cuba, in Corea del Nord vi sono uomini e donne sottomessi e costretti al silenzio. Non si dà cultura senza libertà di parola. Per tanti anni muri e censure hanno sacrificato aree del mondo con uomini e donne così simili a noi per sensibilità e letture come i russi e le popolazioni dei Paesi dell'Est.
Non sembra neppure concepibile oggi che un libro come Il dottor Zivago non potesse essere pubblicato in Unione Sovietica e trovasse un editore in Italia per la sua prima uscita mondiale. Con il paradosso, poi, che l'editore, Feltrinelli, fosse comunista, mentre una comunista italiana, di grande ingegno quanto fedele alla sua ideologia, come Rossana Rossanda riteneva inopportuna la pubblicazione. Altri tempi, un altro mondo. Oggi la Rossanda non riesce a ricordare quella sua rigidezza, e io, da San Pietroburgo, mentre vedo cittadini liberi in una città grande e bella, sento parlare del comunismo come di una preistoria e di una cultura che nessuno può condividere e, avendola vissuta, rimpiangere. Tanto più appare strano che i comunisti in Italia siano al governo e abbiano posizioni non marginali, se addirittura il segretario del Partito di Rifondazione comunista (rifondazione che nessuno auspicherebbe in Russia) è il Presidente della Camera dei Deputati.
Mi chiedo con quale animo e visione, Bertinotti, Rizzo, Cossutta, Diliberto, Gianni, Giordano, Grassi, tutti intelligenti e influenti, e politicamente non marginali, e convintamene comunisti, abbiano letto, su un giornale che ha sempre sostenuto il centrosinistra, l'articolo di un uomo libero (e, per ciò stesso, nel nostro Paese pirandelliano, in carcere) come Adriano Sofri. In Italia non ci sono limiti alla parola, e quindi anche un carcerato, sia pure illustre, può scrivere e parlare. In compenso, come se l'uomo fosse qualcosa di diverso dal suo pensiero, si ritiene necessario, e forse opportuno, bloccarne il corpo. Costringerlo a stare fermo, mentre la sua mente si muove. Così Sofri ha annunciato nell'incontro romano del 12 luglio lo stesso spirito delle iniziative che io vorrei organicamente proporre a Milano: l'incontro con Kang Chol-hwan, autore de L'ultimo gulag. Con lui Kim Sung Min, ex generale dell'esercito della Corea del Nord, Son Jong Hoon, il cui fratello è stato condannato a morte in Corea del Nord con accuse di tradimento e di spionaggio.
La giornata è stata voluta da Freedom House e dai Radicali transnazionali e segue, in un Paese europeo, l'iniziativa di George W. Bush di ricevere Kang Chol-hwan alla Casa Bianca. Non so se Napolitano o Bertinotti faranno altrettanto, ma dobbiamo essere riconoscenti a Sofri e a Repubblica per aver richiamato l'attenzione su questo evento facendoci riflettere sull'orrore dei luoghi dove non c'è libertà e democrazia. Una mostruosità: «Che la Corea del Nord sia un immenso gulag non toglie che vi siano campi di concentramento veri e propri, e che vi siano dannati alla morte per fame e stenti centinaia di migliaia di "colpevoli". Vi vengono chiuse famiglie intere "fino alla terza generazione" perché neanche i nuovi nati possano ripetere le colpe dei vecchi: non essere né contadini né operai, avere ascoltato una radio straniera, aver canticchiato una canzone di Seul, non essere stati abbastanza devoti nell'ascolto, alle 5 di mattina, a mezzogiorno e a mezzanotte, della canzone del generale Kim Il Sung. Magari, aver difettato di zelo nella denuncia dei propri vicini di casa o avere trasgredito alle norme sulla sfumatura alta dei capelli maschili».
Cosi ci racconta Sofri, osservando che sono molti gli orrori del mondo di cui non abbiamo notizie o non ci preoccupiamo: «La Corea del Nord è l'unica monarchia ereditaria comunista, alcuni milioni di persone - due, tre e mezzo, le statistiche sono deboli, milione più milione meno - sono morti di fame nelle carestie degli ultimi dieci anni, e molti fra i vivi si cibano di erbe e radici. C'è una fiorente compravendita di giovani donne, buon prezzo, sottomissione garantita, verso la Cina, dove il deficit di donne lascia troppi uomini senza moglie». Si tratta veramente di un altro mondo che ignora il nostro almeno quanto noi ignoriamo loro. Sofri osserva: «È assai difficile che la popolazione venga a sapere qualcosa del resto del mondo. Che sia successa una cosa chiamata 11 settembre i nordcoreani non lo sanno. Sanno per certo che il mondo intero guidato dalla Corea del Sud e dagli Stati Uniti e dal Giappone, prepara da sempre una guerra contro di loro, e che per questo il caro leader deve sacrificare tutto alle armi, e loro devono morire di fame». Per questo è necessaria la bomba atomica e tutti gli esercizi conseguenti come i missili lanciati verso il Giappone.
I comunisti nostrani continuano a contrastare gli americani e a vedere il principale nemico in George W. Bush, continuando la grottesca schermaglia sulla missione in Afghanistan. Il loro problema è non essere complici dei capitalisti americani che vivono in un Paese dove si può parlare, si possono pubblicare e leggere libri, dove ci si può rifiutare serenamente di ascoltare eventuali canzoni del loro presidente (anche in Italia ci si può permetter di non ascoltare il duo Apicella-Berlusconi), e dove, insomma, si è liberi di vivere come si vuole, e anche di prosperare e amarsi liberamente. Così la minaccia della Corea del Nord sembra una questione che interessa soltanto Bush.
Conclude, un po' sconcertato, Sofri: «E poi si può guardare in faccia l'infamia, e protestare anche solo per se stessi, e per la speranza che un'eco ne raggiunga mai gli affamati e i reclusi dei lager. Se no, sarà solo affare di George W. Bush. E di qualche buon volontario. Oltretutto la Corea del Nord riceve aiuti consistenti dalla comunità internazionale e dalla stessa Europa, oltre che dalla Corea del Sud, il cui governo corteggia un pusillanime appeasement. Solo una piccola parte di aiuti arriva agli affamati. Arrivasse loro almeno un segno di compassione e di rivendicazione dei diritti». Quando penso alle febbrili e pervicaci schermaglie comuniste sul contingente italiano in Afghanistan mi chiedo con quali convinzioni e illusioni si possa attribuire rilievo politico all'interpretazione del significato di una missione di pace e tacere sulle conseguenze, prevedibili e imprevedibili, di una ideologia criminale. Conoscere consente di capire. Spero, e credo (oggi grazie a Sofri) anche a Rizzo e a Bertinotti.

E mi convinco che sia importante seguire questa strada e fare di Milano la capitale della libertà di parola, sperando che sia Sofri, libero anche nel corpo, ad aprire questa nuova stagione.

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