«Il capitalismo cinese? È taroccato»

da Torino

Non è un nazionalista e non è un dissidente. Non condanna e non assolve. Si trincera dietro oscure frasi tra Pirandello e il biscotto della fortuna: «Oggi in Cina tutto quello che è finto diventa vero e tutto quello che è vero diventa finto». Il dottor (nel senso di medico) Yu Hua è uno degli scrittori cinesi più famosi al mondo, da dieci anni in tournée in ogni angolo del globo, venuto alla Fiera del Libro di Torino a presentare Arricchirsi è glorioso - slogan simbolo di Deng Xiao Ping come «Ribellarsi è giusto» lo fu di Mao - appena uscito per Feltrinelli (euro, 19, pagg. 438, trad. Silvia Pozzi), ascesa e caduta di due fratelli negli anni post-Tienanmen: Li Testapelata, che diventerà miliardario coi rifiuti, e il sentimentale fallito Song Gang, che morirà suicida.
Coca Cola in tasca, taglio di capelli alla wild boy coreano, passo sicuro tra i padiglioni della Fiera come se gli stand li avesse montati lui, Hua giustifica il suo piede in due scarpe con una linea anch’essa riassumibile per etichette: «Sono uno scrittore», ovvero sostengo storie, non idee politiche, e «Il popolo è mutevole», ovvero siccome è il popolo a leggermi, darò una valutazione etica quando i cinesi saranno in grado di comprenderla. Dando per scontato (o dimenticando ad arte?) che mai un suo romanzo potrebbe inoculare nei compatrioti la coscienza critica necessaria a scoprirsi individui prima che individualisti e a riacquisire quel concetto di rispetto dei diritti umani che per troppo tempo è stato abolito.
Per ora si concentra su una cifra felliniana, un grottesco che spesso approda in regioni inguinali o viscerali: la miccia della personale rivoluzione culturale di Li Testapelata, la «visione» che lo porterà a diventare miliardario, è il più bel sederone femminile della città, sbirciato da una latrina. Lo status symbol dei nuovi ricchi cinesi è la tazza del water placcata oro. E se Olimpiadi devono essere, che siano quelle dell’Imene, in cui tremila miss vergini fioccate da tutto il Paese sfilano per vincere un milione di yuan e una scrittura a Hollywood. Hua stesso, nella vita reale, partecipa (inconsapevole?) a quest’orgia di consumismo «clonato» in cui ciò che vale si confonde con ciò che luccica: «Almeno una volta alla settimana mi capita di leggere interviste che non ho fatto, in cui mi fanno dire cose stupide che non ho detto» ci racconta. «Che bevo un vino invecchiato di 50 anni, una grappa di 100 anni. Se le fanno da soli perché da tempo non ne concedo». E non protesta? «All’inizio mi innervosivo. Ma poi ho capito che il fenomeno è incontrollabile. Ricorda la bimba la cui voce inaugurò le Olimpiadi e che non vedeste perché era bruttina? Oggi in Cina è una star».
Sembra non rendersi conto che l’appropriazione di opinione e identità è un fenomeno di limitazione della libertà: «Da noi solo se vuoi diventare membro del partito smetti di essere libero. Ma per chi non fa politica, nulla è proibito. Io mi sento libero nel mio Paese. Come parlo con lei parlo in Cina». Ma ha partecipato a Tienanmen, caro dottore, tanto che il New York Times le ha chiesto un articolo esclusivo - in uscita il 4 giugno - in cui racconta e spiega l’evento per la prima volta dopo vent’anni. «Là ho sentito per la prima volta che eravamo un popolo» risponde. «Però ero in mezzo a migliaia di altri, irriconoscibile, mica ero un capo. Non corro pericoli per essere stato presente», tiene a precisare. E accetta le interviste false come ride delle Vuitton false. Sarà falso anche il capitalismo? «Il capitalismo? Da noi non esiste. Esiste il “capitalismo alla cinese”, così come ci hanno propinato il “socialismo alla cinese”» ci spiega. «Questa declinazione, che sottintende una peculiarità del nostro popolo - ma non ci è dato di sapere quale - permette di far perdere a qualsiasi “ismo” il suo significato originario. Io stesso non saprei dirle quale sia la differenza tra il vecchio socialismo e il nuovo capitalismo, in Cina».
A sentire Yu Hua, il denaro è un’ideologia, né più né meno di quanto lo era la Rivoluzione Culturale: «I ricconi cinesi ammirano le Rolls Royce perché più la macchina è grande, più è apprezzata. Ma è cosa buona solo se è prodotta in Cina. I giovani arricchiti sono fortemente nazionalisti e comprano volentieri solo quel che produciamo internamente. Da noi si dice: “Farsi la bocca piena di Cina”.
Sono proprio i nazionalisti a osteggiare Yu Hua in patria e pare che a ogni presentazione in giro per il mondo qualcuno di questi giovani cinesi prenda la parola e lo contesti: «Cito dati ufficiali, sostengo che la parte di popolazione che non ha né casa né auto è ancora la maggioranza, che la soglia di povertà - 80 euro di reddito l’anno - è superata soltanto da cento milioni di cinesi (meno del 10 per cento del totale, ndr). E loro mi rispondono che “il denaro non è un criterio di valutazione della felicità”. Appena aprono bocca li riconosci subito: parlano per slogan, come sempre, e hanno uscite estreme». Accade anche durante la presentazione del romanzo alla Fiera. Ma Siwen, uno di questi giovani «nazionalisti» - 29 anni, studia Legge a Torino - si alza in piedi e lo provoca: «Scelga: lei è uno scrittore o un politico? Perché si ostina a denigrare la Cina, dando ragione alla stampa estera?». Hua rimane tranquillo: «Tu vuoi farmi parlare di una parte della realtà. Perché voi degli anni Ottanta vivete in case da cento metri quadrati. Ma bisogna imparare a pensare agli altri».
C’è da dire che Hua i capitalisti «alla cinese» li conosce bene e siccome è un scrittore famoso viene invitato nelle loro ville.

E ovviamente, data quella che chi lo ama definisce kafkiana assenza di spirito critico e noi «schizofrenia alla cinese», accetta: «Una volta andai in visita da uno di questi ricconi e mi mostrò la sua casa e l’enorme piscina. Poi scoprii che non sapeva nuotare. Che se ne fa della piscina? gli chiesi. Tutti i ricchi hanno una piscina! mi rispose. Col tempo, l’ha trasformata in acquario. Ci alleva i pesci che poi dà agli ospiti a cena».

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