La sinistra sembra prigioniera di un sogno: quello secondo cui la crisi mondiale delle Borse non ha effetti rilevanti sulla politica e sullo Stato e che i problemi politici possono essere risolti con manifestazioni di piazza. Esse sono state, dal ’60 in poi, le grandi occasioni della sinistra, che si è costituita come altro dalla democrazia e dallo Stato e ha proclamato una forma blanda del diritto di insurrezione. Non tanto blanda nelle conseguenze perché dalla piazza è nato il terrorismo. L’album di famiglia si è accresciuto di nuovi volti che non ripetevano i lineamenti antichi. Se fosse ancora marxista invece che nulla, la sinistra potrebbe comprendere che questa è una vera crisi del capitalismo e che una fase della storia è chiusa, quella fondata sull’unipolarità americana e sulla società globalizzata, in cui le banche, rischiando, potevano permettersi tutto.
La crisi è stata affrontata dal mondo occidentale con grande coraggio e sostanziale unità, ma ciascuno in casa propria: lo Stato nazione della tradizione moderna è il decisore ultimo. Sembravano finite le patrie: e invece la crisi del capitalismo totale nella società globalizzata ha mostrato che esse esistevano e che erano il fattore decisivo della soluzione della crisi. Da questo momento in avanti sarà lo Stato a garantire che le banche non cadano più nella tentazione di creare economia di carta oltre le dimensioni dell’economia reale, che rimangano cioè fedeli al principio di impresa che è la forza storica del capitalismo.
È paradossale che sia lo Stato a governare i flussi di capitale, ma ciò avviene quando lo Stato giunge ad assumere i debiti delle banche verso altre banche. Nasce una nuova realtà, in cui la garanzia del sistema sarà data in ultima analisi dalla capacità dei governi a dare forma a un flusso mondiale di risorse e di merci. Ma questo crea un’altra condizione del capitalismo, assai diversa da quella che abbiamo sperimentato dopo la fine del comunismo. Se le sinistre avessero ancora un pensiero sulla storia, avrebbero dovuto capire che la storia non è finita e che i rapporti tra mercato e Stato sono una realtà profonda oltre le varie forme che esso riveste.
E così cambia la politica. Il governo diventa l’elemento centrale del sistema democratico, quello che deve garantire, in concorso con gli altri Stati e gli altri governi, le regole del mercato mondiale: imporle come diritto e tutelarle con il suo intervento politico a sanzione delle regole stabilite. È un altro mondo quello in cui entriamo, in cui il popolo sceglie il governo e il governo risponde al popolo. La democraticità di un sistema in cui lo Stato diviene la garanzia ultima del sistema economico funziona nella libertà solo nel nesso diretto tra popolo e governo mediante la democrazia.
Il governo Berlusconi ha inteso che un governo deve decidere: e ha deciso. La potenza di decisione del governo è esorcizzata dalla Costituzione italiana che ha frantumato i poteri e moltiplicato le garanzie. Berlusconi dichiara di voler governare con i decreti leggi: e ha ragione. Il presidente della Repubblica deve ricordare che egli è stato eletto da una maggioranza che non è più nel Paese e non ci sarà più e che egli viene da una tradizione e da una militanza ideologicamente estranea alla democrazia e alla libertà.
Il governo Berlusconi avrà la presidenza del G7 nel 2009 e la userà per cercare di creare un consenso non solo dei partecipanti al vertice mondiale, ma anche dei grandi Paesi che sono emersi nell’economia come Cina, Brasile, Messico, Sud Africa, Egitto e India. È il tema della nuova Bretton Woods che da tempo il ministro Tremonti ha posto al centro del suo pensiero e della sua azione. È una caratteristica rara in un uomo politico quella di unire pensiero dottrinale e azione pratica.
Il centrodestra è in grado di governare e l’ha dimostrato e ha il popolo con lui. Se Di Pietro riuscisse a produrre il referendum contro il lodo Alfano, si troverebbe con le pive nel sacco.
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