
Nel 1986, per Garzanti, esce uno dei libri più anomali della poesia italiana. S'intitola Il Conte di Kevenhüller e reca impresso, in riproduzione anastatica, l'Avviso fatto stampare a Milano il 14 luglio del 1792 dal conte medesimo: un «premio di cinquanta Zecchini» sarà offerto a chiunque ucciderà «una feroce Bestia di colore cenericcio moscato quasi nero, della grandezza di un grosso Cane», rea di aver sbranato «due Fanciulli» e di intimidire l'intero ducato. Il libro, composto come una fuga di Bach, è, in effetti, il resoconto di un inseguimento, il regesto di una «generale Caccia». L'opera o meglio, «Operetta» è detta, dall'enigmatico Aleso Leucasio, in esergo, «finita ed infinita»; quanto ai Kevenhüller, nobile famiglia austriaca originaria della Franconia, nel Settecento si trasferirono davvero nel Lombardo-Veneto, sotto la reggenza di Maria Teresa d'Asburgo.
I versi sono spesso memorabili: dietro la maschera ironica si nasconde un poeta eracliteo, abile nel forgiare sentenze e labirinti, responsi e sposalizi col caos. In ogni caso, il lettore scoscende nella caccia, alla cerca della «bestia leoneggiante./ Gecheggiante...// dragheggiante», la «Bestia... senza forma./ Imprendibilmente erratica». A un certo punto nei versi di Perplessità delle Curie si fa riferimento alla Bestia del Gévaudan, il «Monstre» che massacrò, in Francia, a metà del Settecento, un centinaio di cristiani, di solito bimbi; alla ferina storia hanno dedicato dei film. Nell'ala del libro si diceva di «appostamenti contro se stessi» e di «puro orrore del Nome»; dell'autore, Giorgio Caproni (1912 - 1990), si elencavano i premi tra cui, un paio di «Viareggio» , ricordando che era stato partigiano, in Alta Val Trebbia. Il libro uscì in aprile, il 24, il giorno che precede quello della Liberazione; in febbraio, Caproni era andato a l'Isle-sur-la-Sorgue a far visita a René Char, il poeta combattente, che aveva tradotto, più di vent'anni prima, per Feltrinelli (quelle Poesie sono poi state recuperate ed edite da Einaudi nel 2018). Caproni preferiva penetrare in linguaggi opposti al suo: nel 1964, per Garzanti, aveva tradotto Morte a credito, il capolavoro di Céline, con miliare efficacia (lo ristampano ancora).
Il Conte di Kevenhüller piacque a Carlo Bo, che ne scrisse sul Corriere della Sera: «Caproni dice poche cose, tutte ridotte all'osso e tuttavia il suo diventa un discorso fra i più completi che si siano avuti nell'ambito della poesia del secolo» (13 agosto 1986). Di suo, come sempre, il poeta sparigliava le carte. In una lunga chiacchierata con Ferdinando Camon (in: Il mestiere di poeta, a cura di F. Camon, Lerici, 1965) aveva detto che «una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m'ha sempre messo in sospetto». Eppure, nel «Conte» dice di numi e di archibugi, di Papageno, di boschi, di prede, di una «pantera/ nebulosa». In una poesia fulminante, Consolazione di Max, il poeta sembra riassumere una poetica dello stare al mondo: «Mi piacciono i colpi a vuoto./ I soli che infallibilmente/ centrino ciò ch'enfaticamente/ viene chiamato l'Ignoto». Nelle Note al libro, il poeta cita Giovanni Macchia e Giuseppe Leonelli, un libro di Ginevra Bompiani, La specie del sonno, stampato da Franco Maria Ricci, una frase di Giorgio Agamben, il filosofo che si prenderà cura dell'ultimo libro, postumo, in atto di predazione, di Caproni, Res amissa. Quel libro così Agamben riprende un'asserzione di Caproni continua e varia il discorso iniziato con Il Conte di Kevenhüller: «la caccia alla Bestia» è mutata in «caccia al Bene perduto». A quanto scrive Francesco Napoli nello studio biografico Giorgio Caproni. Scrittore in versi (Edizioni Ares, pagg. 136, euro 15), il poeta prese spunto, per il titolo di quel libro tanto centrale e tanto eccentrico, «dalla collezione di poster della figlia Silvana». Disse, Caproni a screditare l'idea di una poesia posata, miniata, a colpi di squadra di abbozzare versi «senza alcun disegno», inseguendo il «mistero». Con la cura dell'ispirato cronachista, dell'amico, Napoli allinea i momenti miliari della vita di Caproni: la perdita della fidanzata, Olga Franzini, poco prima delle nozze, nel 1936, per setticemia; l'amore specie di impossibile ma salutare contrappeso per Rosa Rita Rettagliata; l'onnipotenza della madre, Anna Picchi, che da ragazza lavorava presso l'atelier di moda del Magazzino Cigni in Livorno. Leggeva Darwin e Verne, Nietzsche e Jack London, Caproni; visse come una rivelazione le poesie di Ungaretti e Ossi di seppia di Montale. Esordì giovane, nel 1936, poco più che ventenne, con Come un'allegoria. Pasolini lo riteneva «uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario» (così su Paragone, nel dicembre del '52, scrivendo di Stanze della funicolare). Furono amici. Pasolini lo diceva «anima armoniosa, perché muta»: lo volle per doppiare il vescovo in Salò o le 120 giornate di Sodoma. Caproni lo ricorda in una lettera in versi, dopo la sua morte: «Caro Pier Paolo./ Il bene che ci volevamo / lo sai era puro./ E puro è il mio dolore».
Il libro di Francesco Napoli è necessario: pur al centro del canone, Caproni resta, per una connaturata ritrosia anche stilistica, refrattario alla dimestichezza liceale, alla domesticazione popolare. Tra i suoi libri, esatti e sigillati, Giovanni Testori preferiva Il franco cacciatore (Garzanti, 1982), che è poi il foyer de Il Conte di Kevenhüller. Scrisse di una raccolta «tragica, lapidaria e sottilissima», di «magre pagine, fatte di cristallo e di sangue», di una «irraggiungibile bellezza». Scrisse era il Corriere della Sera, era il 4 giugno del 1982 di una prossimità con Samuel Beckett, «con cui Caproni divide una certa, asciutta, ossea somiglianza fisionomica».
Interpellato da Napoli in una sorta di intervista-memoriale, Maurizio Cucchi ricorda la connaturata umiltà di Caproni («quando c'è il grande poeta, il grande non se la tira mai») e quell'epica magrezza, una «magrezza simile alla sua poesia».
Quasi che il corpo, come nelle allucinate figure di Giacometti, si configurasse in un coltello, in una selce. L'ultimo disvelamento, in poeti del genere, è tremendo riguarda la nudità del tremendo. Ma non sono loro a denudarsi, no: sei tu, lettore, a subire la lenta opera d'intaglio. Il poeta è lì, e ti fa lo scalpo.
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