Politica

Carbone e idroelettrico: un bilancio di catastrofi

L’Agenzia per la protezione dell'ambiente: «Eolico e solare deturpano il paesaggio»

Antonio Belotti

Il botto di Cernobil nel 1986 si è velocemente tradotto, soprattutto in Europa, in un necrologio per il nucleare. Il libro bianco redatto dalla Commissione presieduta da Romano Prodi indica come ineluttabile la progressiva chiusura di molti reattori dietro pressione di una opinione pubblica resa diffidente, se non spaventata. Nonostante ciò la potenza elettronucleare installata nel mondo, pari a 249.688 MWe all'epoca del disastro ucraino, a fine 2002 era di 358.661 MWe, con un incremento del 44 per cento. Altri 30mila MWe di potenza dovrebbero aggiungersi ad opera dei 30-40 nuovi impianti progettati o in costruzione in sedici diversi Paesi. Non ha senso - avverte l'Apat (Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici) - considerare sintomo di regresso della tecnologia nucleare il fatto che Paesi estesamente dotati di questa fonte energetica rinuncino a costruire nuove centrali. I programmi nucleari sono infatti limitati per definizione: una volta raggiunto un mix produttivo ottimale (nucleare, fonti fossili, idroelettrico e fonti rinnovabili) non è più necessario realizzare nuovi impianti nucleari. Tanto più che modernizzando quelli esistenti si può prolungare la loro vita dai previsti 30-35 anni a 60.
Indizi di un cambio di orientamenti vengono dal Nord Europa, dove la Finlandia ha virato a 180 gradi e deliberato la costruzione di una quinta centrale nucleare. Il governo svedese dal canto suo ha abbandonato di fatto il progetto di uscita dal nucleare rinviando sine die la chiusura di un secondo reattore dopo quello fermato nel 2000. Anche la Germania sta ripensando il suo piano di abbandono del nucleare mentre la Svizzera boccia sistematicamente i referendum abolizionisti dei Verdi. Oltre Atlantico gli Usa non costruiscono centrali da vent'anni anche perché preferiscono aumentare la potenza di quelle esistenti prolungandone la vita.
I danni dell'inquinamento ambientale e gli impressionanti dati sulla mortalità provocata da attività estrattive e da incidenti connessi a combustibili fossili e impianti idroelettrici hanno restituito al nucleare buona parte delle sue credenziali, compresa quella relativa alla sicurezza. Se Cernobil ha provocato finora 33 morti «immediati», dal 1979 a oggi si registrano almeno 4mila morti per crollo di dighe e altrettanti per esplosioni di metano. In Cina - ricorda Andrea Borio di Tigliole, direttore del Lena (Laboratorio per l'Energia Nucleare Applicata, Università di Pavia) - nel 2000 sono deceduti 5.300 minatori nel comparto carbone; l'anno successivo i morti sono stati 5.670. E che dire delle petroliere che ogni anno riversano a ridosso delle coste una media di 270mila barili di petrolio? Oleodotti e gasdotti disperdono poi nell'ambiente, a seguito di incidenti e attentati vari, quantità preoccupanti di materiale, basti pensare che nella sola Colombia mancano all'appello due milioni di barili di petrolio, finiti chissà dove a seguito di attentati della guerriglia.
«Il ciclo del carbone estratto dal sottosuolo e trasportato su rotaia - puntualizza a sua volta l'Anpa - produce 279 infortuni e malattie e 18,1 decessi per gigawatt/anno, mentre per l'uranio i dati corrispondenti sono 17,3 e 1. Né sono da sottovalutare gli impatti sull'ambiente e sul territorio degli impianti idroelettrici, eolici e fotovoltaici. I primi, con i loro grandi bacini di accumulo, alterano il clima e la portata dei corsi d'acqua, con la più alta probabilità di eventi catastrofici. Nel caso dell'eolico impatto paesaggistico e rumore non sono certo trascurabili, così come per i captatori del solare termico e fotovoltaico».
L'incidente alla centrale elettronucleare di Cernobil - fa presente Borio - è stato causato dalla violazione deliberata di sei prescrizioni e dall'esclusione volontaria dei sistemi automatici di sicurezza del reattore. È come se avessero deciso di giocare a baseball con una bomba innescata. La dispersione delle sostanze radioattive su così vasta scala è stata causata dall'assenza del contenitore esterno, componente di sicurezza fondamentale in qualunque centrale nucleare occidentale.
«I reattori nucleari occidentali - aggiunge l'Anpa- sono progettati e costruiti in modo tale da prevenire rilasci indesiderati di radioattività e tutte le caratteristiche di sicurezza si sono dimostrate realmente efficaci».
Oltre alla riduzione dei possibili rischi, la ricerca e la progettazione sul nucleare sono attualmente impegnate sul problema della gestione delle scorie. Una centrale elettronucleare da mille MWe - spiega Borio - produce ogni anno cento metri cubi di rifiuti solidi così ripartiti: tre metri cubi ad alta attività (materiale che richiede un confinamento per migliaia di anni); sette metri cubi di rifiuti a media attività (da stoccare per un periodo che varia da qualche decennio a qualche secolo) e 90 metri cubi di rifiuti a bassa attività, ossia rilasciabili in un periodo che varia da pochi giorni a qualche decennio. I vari processi di trattamento di tali rifiuti hanno l'obbiettivo di minimizzarne le quantità e i volumi mediante selezione, concentrazione, stabilizzazione e supercompattazione. Quelli ad alta attività vengono anche neutralizzati mediante cementazione, vetrificazione, ceramizzazione ed altri procedimenti specifici. Quelli a media e bassa attività sono confezionati in fusti di acciaio e temporaneamente stoccati in depositi di superficie o inceneriti in appositi impianti di trattamento. Per i rifiuti ad alta attività i depositi definitivi saranno costruiti all'interno di formazioni geologiche particolarmente stabili quali formazioni saline o di rocce granitiche. Negli Usa il deposito di Carlsbad, nel New Mexico, ospita all'interno di una formazione salina un deposito di scorie nucleari militari, mentre si sta iniziando la costruzione di un altro deposito definitivo a Yucca Mountain, nel Nevada. Anche Belgio, Finlandia, Svizzera, Svezia, Canada e Giappone stanno approntando soluzioni definitive, unitamente alla Francia che nella Meuse, a 445 metri di profondità, sta scavando gallerie sperimentali in una formazione di argillite vecchia di 155 milioni di anni.
Da noi la localizzazione del Deposito nazionale a Scanzano Jonico, in provincia di Matera, ha scatenato autentiche sollevazioni popolari. Il governo si è ritirato in buon ordine, riservandosi di adottare una decisione definitiva entro il prossimo dicembre. Resta da vedere come popolazioni che insorgono al solo sentire la parola «inceneritore accetteranno di convivere con un deposito di scorie nucleari.
«La costruzione e l'impiego futuro - conclude Borio - di reattori “veloci” autofertilizzanti con ciclo del combustibile chiuso e di sistemi di bruciamento delle scorie (ad esempio il sistema Ads alla progettazione del quale partecipa, o meglio, partecipava attivamente anche l'Italia prima che l'Enea tagliasse i fondi) contribuirebbe in maniera determinante ad ottimizzare la gestione dei rifiuti nucleari ad alta attività e a migliorare l'accettabilità sociale della produzione di energia elettrica da fonte nucleare».


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