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Cari medici, basta fare i Dottor House

Mauro, un giovane di 28 anni, si è addormentato in anestesia in un ospedale romano e non si è più risvegliato. Aveva una patologia del sangue che comportava una grave anemia e per questo doveva subire l’asportazione della milza, diventata una spugna che distruggeva tutti i suoi globuli rossi e che andava quindi rimossa. Mauro è morto sul tavolo operatorio, poco dopo essere sprofondato nel sonno profondo indotto dai farmaci. Il suo cuore, già indebolito dalla cronica anemia, non ha retto allo stress chirurgico, per la scarsa ossigenazione (...)
(...) dovuta alla scarsa quantità di globuli rossi. Una complicanza non rara in casi del genere, ma che suscita rabbia e desolazione quando ad essere stroncata è una giovane vita. I parenti del paziente, appena appresa la notizia del decesso, hanno protestato aggredendo fisicamente i medici e denunciando il caso alle autorità competenti. Il tutto è finito sui giornali e telegiornali come l’ennesimo caso di malasanità. Quello che non viene detto è che probabilmente lo stesso Mauro aveva firmato il consenso informato, un foglio in genere presentato dal medico rianimatore al paziente prima di scendere in sala operatoria, scritto in piccolo come quello delle polizze assicurative, in cui si chiede l’autorizzazione all’anestesia, all’intervento chirurgico e alla somministrazione di farmaci, un foglio che a quasi tutti i pazienti viene fatto firmare nell’imminenza dell’operazione e che quasi nessuno legge per non avere l’ansia di addormentarsi con l’elenco dei rischi medici e chirurgici e delle dettagliate esclusioni di responsabilità dei sanitari, che se uno muore in pratica è solo colpa sua. È anche vero che ormai quasi nessun medico elenca più al paziente i rischi sempre presenti di un intervento chirurgico, soprattutto i rischi mortali, anzi, nel colloquio preparatorio, si cerca di capire soprattutto l’eventualità del rischio anestesiologico, essendo quello chirurgico più noto e prevedibile. Attenzione però alla «sindrome del dottor House», lo scorbutico medico della fortunata serie televisiva americana, che il paziente lo vedeva il meno possibile e ci parlava ancora meno, ma almeno lui arrivava sempre alla giusta diagnosi e raramente perdeva il paziente. Strano modo di dire visto che poi è il paziente stesso a perdere la propria vita sotto l’operato medico o chirurgico. Noi in realtà non siamo più abituati ad accettare l’evento avverso, l’esito negativo, il fallimento dell’intervento umano ultraspecialistico, in un’epoca in cui la tecnologia medica e rianimatoria è addirittura capace di resuscitare i morti e creare infatti gli stati vegetativi permanenti così tristemente famosi. Noi non l’accettiamo semplicemente perché non ci viene spiegato con chiarezza. Nessun intervento chirurgico è esente da rischio al 100% e se il paziente è debilitato da gravi patologie, come lo era Mauro, naturalmente il rischio aumenta. Il successo scontato non esiste, è una pura chimera.

Parlare ed informare da parte dei medici è fondamentale in questi casi, ma dovrebbe essere la regola sempre, proprio per evitare che un incidente mortale, raro ma non evitabile, diventi l’ennesimo caso di malasanità italiana, in un Paese dove le cose che non funzionano sul serio sono ben altre.

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