Politica

La carica dei dottori in Scienze dell’aiuola

Corona di alloro, genitori commossi, amici per l’occasione in giacca e cravatta e fidanzata raggiante a fianco. Oggi per Filippo è un giorno importante; il giorno della laurea. Oggi Filippo diventa dottore. Solo lo zio Giacomo non esulta: sta in disparte, pensieroso. Alla fine prende coraggio, si avvicina a Filippo e gli fa: «Bravo. Ma ora che sei dottore in Scienze e tecnologie del fitness, cos’è che farai per vivere?». Alla domanda dello zio Giacomo rispondono direttamente dall’università di Camerino, dove le competenze acquisite da Filippo sono descritte «di natura multidisciplinare, finalizzate allo sviluppo e mantenimento del benessere psicofisico, da utilizzare nell’ambito di palestre, gruppi sportivi e centri di benessere». Con tutto il rispetto per il mondo del fitness, ma davvero c’è bisogno di studiare tre anni per andare a lavorare nelle palestre?
Del resto c’è chi studia lo stesso numero di anni (o anche due in più, se vuole la specializzazione) per acquisire le competenze necessarie a curare le aiuole pubbliche, come i ragazzi che frequentano i corsi di Scienze del fiore e del verde all’università di Pavia, o di Scienze vivaistiche e gestione del verde a Firenze, o di Protezione delle piante a Milano. Quando usciranno con il loro bel diploma di laurea saranno competenti per realizzare i progetti elaborati dai laureati in Architettura dei giardini e paesaggistica, in Pianificazione delle aree verdi o in Gestione tecnica del paesaggio, fuoriusciti rispettivamente dalla Sapienza di Roma, dall’università di Pisa e di Perugia.
Ma non di sola erba vive l’università italiana. Negli ultimi otto anni i vertici degli atenei hanno infatti gareggiato nell’elaborare i corsi più disparati e, perché attirassero sempre più giovani, li hanno presentati come moderni e freschi, impacchettati con nomi di forte appeal. Il tutto per accaparrarsi più iscritti possibili, dai quali discende il numero di professori, il potere dell’ateneo e, soprattutto, i fondi pubblici. Ma i magnificamente fantasiosi rettori hanno sottovalutato due aspetti: che gli istituti superiori non sfornano abbastanza diplomati per riempire 5.400 corsi di laurea (nel 2000 erano 2.444), tanto che nell’anno accademico scorso ben 37 corsi avevano un solo studente iscritto; che tra offerta formativa e mercato del lavoro un seppur debole nesso dovrebbe sempre esserci.
Lecito domandarsi dove impiegano il loro sapere i ventitreenni che vantano una laurea in Scienze sociali per la cooperazione, lo sviluppo e la pace (Macerata), in Cooperazione internazionale per lo sviluppo e la pace (Perugia), in Scienze per la Pace (Pisa) o in Gestione e mediazione dei conflitti (Firenze). Secondo l’università toscana i ragazzi potranno «agire concretamente e pienamente nel tessuto sociale per valorizzarne le risorse e trasformarne gli elementi di conflittualità e sofferenza». Trasformare la sofferenza. Quel che si dice una competenza da inserire in cima al curriculum. Competitiva, agli occhi dei direttori del personale, quasi quanto «la capacità di riconoscere nelle forme teoriche, culturali e artistiche la dimensione fondativa e gli aspetti dinamici che ne regolano lo sviluppo e le connessioni»: questo quanto viene insegnato a Udine agli studenti di Teoria delle forme, degni compagni di chi passa giornate sui libri all’università della Calabria per imparare la Storia delle idee. Il sapere però non si declina solo in concetti astratti; numerosissimi infatti anche i corsi che insegnano qualcosa di pratico, come quelli di Teramo, dove è attivo un corso di Tutela del benessere animale, di Milano (Allevamento e benessere animale) e Parma (scienze equine). Molti dei ragazzi che usciranno da questi atenei potranno trovare lavoro nelle stesse aziende che assumeranno i giovani laureati a Milano in Scienza della trasformazione del latte, a Torino in Scienze enologiche o in Acquacultura a Udine. Sempre però sotto la supervisione dei dottori in Ecologia che, come si legge sul portale dell’università di Lecce «sono esperti in analisi e controllo dello stato di salute degli ecosistemi». Ma non bastavano i biologi? C’era il bisogno di creare - e pagare - un corso nuovo di zecca? Forse è la scarsa attenzione data dai rettorati all’impiego dei fondi statali ad aver causato la proliferazione abnorme di corsi e lauree.

Ma se i soldi che arrivano da Roma vengono sottovalutati, diverso è l’atteggiamento per i denari provenienti da Bruxelles, per l’accaparramento dei quali è stata creata una laurea apposita: Identificazione e accesso ai fondi europei.

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