Cultura e Spettacoli

Carlo Betocchi e Antonio Pizzuto, amici sulla carta

Credo che nessun poeta sia stato più solerte e cortese di Carlo Betocchi (1899-1986) nel rispondere a tutti quelli che gli scrivevano, anche agli autorucoli più fastidiosi. Ma gli bastava avvertire quel minimo indispensabile di affettiva sintonia per indurlo a confidarsi in lettere bellissime: come quelle inviate fra il 1976 e l’84 al poeta anconetano Franco Scataglini (le ha pubblicate nel ’91 L’Obliquo), oppure nel prolungato carteggio (1956-1983) con Maria Pia Pazielli, libraia in Bordighera: San Marco dei Giustiniani l’ha raccolto nel 2004, intitolandolo da una frase esemplare dello stesso Betocchi, Io son come l’erba.
Fra tutti, il più importante per valore storico ed estensione (1920-1979) rimane l’epistolario con Piero Bargellini, stampato nel 2005 da Interlinea. In esso, come del resto negli altri, Betocchi mostra una forza espressiva e comunicativa pari a quella delle sue più felici pagine di poeta e di prosatore. Un po’ meno «da antologia», sotto questo aspetto, ma non povera d’interesse, risulta la documentazione di un rapporto poco divulgato fino a oggi, quello intercorso fra Betocchi e Antonio Pizzuto (1893-1976), il narratore palermitano ammiratissimo da Gianfranco Contini. A più riprese, fra il 1966 e il ’71, egli spedì a Betocchi inediti per L’Approdo letterario, la rivista di cui Betocchi a Firenze era segretario di redazione e che tra i membri del comitato direttivo annoverava proprio Contini.
In queste Lettere (1966-1971), curate da Teresa Spignoli per la Polistampa (pagg. 130, euro 15), si riaffacciano le maniacali passioni di un autore arduo e insolito come Pizzuto: ostico ai più ma osannato, per la vivace anomalia dei suoi registri stilistici, da varii filologi (dopo Contini, va citato Giovanni Nencioni, altro corrispondente insigne di Pizzuto). Quantunque, a dire il vero, sia stato un critico non strettamente filologo, Luigi Baldacci, il protorecensore di Signorina Rosina, romanzo uscito nel 1959 da Lerici nella collana di Bilenchi e Luzi; mentre la prima monografia su Pizzuto (1971) recava la firma di Ruggero Jacobbi, anche lui esterno alla munitissima cerchia della filologia.
Dubito che Betocchi si trovi del tutto a suo agio con l’opera di Pizzuto, malgrado le pronte dichiarazioni di stima (si potrebbe mai smentire l’autorità di Contini?). Il personaggio comunque lo affascina, gli fa simpatia, con quei suoi fogli che gli arrivano manoscritti (formeranno man mano le Pagelle, Sinfonia, Testamento...), vergati con una grafia che impressiona: scolasticamente ordinata, pulita, puntigliosa. Non stupisce che larga parte della corrispondenza con Betocchi (dove dal «lei» si passa al «tu», auspice Pizzuto, già nell’ottobre del ’66) la occupino l’ossessione per la punteggiatura e gli spazî, il terrore che il proto vada a capo di sua iniziativa, quando invece Pizzuto ha deciso altrimenti («nella mia scrittura non si va mai accapo»). Il laboratorio pizzutiano segue regole ferree ed esige, a riscontro, attenzioni specialissime da chi dovrà maneggiarne i prodotti. Uomo di comprovata esperienza del mondo - questore a riposo, ma già affidatario di incarichi di rilievo, fra l’altro in quella che sarebbe diventata l’Interpol -, Pizzuto è un pesce fuor d’acqua di fronte a certe incombenze: se chiede sempre a L’Approdo gli estratti, poi vorrebbe non solo ricevere le buste della misura adatta a impostarli ma anche le informazioni sull’affrancatura prescritta!
Queste lettere servono più ad aggiungere enfatici corollarî all’indole di Pizzuto (già chiarita abbastanza dai carteggi con Vanni Scheiwiller, Nencioni, Margaret Contini) che non a fornire elementi inediti sul carattere di Betocchi. Una volta Pizzuto ne sollecita la competenza professionale, di poeta, per un parere sui versi della figlia, Maria (e qui Betocchi si schermisce, dichiarandosi «giudice all’ingrosso»). Invidiato perché all’Approdo può disporre di una efficiente e graziosa segretaria, Betocchi cerca davvero di soccorrerlo nei minimi impicci, quest’interlocutore smanioso e prezioso, che lavora - sono parole sue - «con una tenacia che sa vincere ogni ostacolo». Si duole, Betocchi, del fatto che - malgrado Roma, dove Pizzuto abita, non sia lontanissima da Firenze - l’occasione propizia per un vis-à-vis tardi a presentarsi. Ma forse quest’amicizia basta a se stessa così, affidata alle carte. Dove Antonio si rallegra che la furia dell’alluvione abbia risparmiato i suoi fiorentini, e dove Carlo lo consola della mancata assegnazione del «Marzotto» (assurdo il pretesto: nove gentili dame gli avevano attribuito di recente il premio «Ferro di Cavallo»!).
Qua e là, affiora il pathos discreto, condiviso, di un rammarico per la fuga del tempo, che li espone, entrambi, ai malanni della vecchiaia.

Una diffusa tonalità crepuscolare mitiga allora - e non è certo un peccato - la letterarietà inevitabile di un carteggio come questo.

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