Il Carlo Felice e la rivoluzione contro i talebani

(...) risparmiamo, invece, è la possibilità di raccontare un altro Carlo Felice. Di disegnare un altro modello di teatro.
Un modello che, quantomeno, ai tempi di Gennaro Di Benedetto, sovrintendente degno di questo nome, prima del buco nero dell’incredibile scelta del commissariamento e della guerra di Marta, aveva dei colpi di genialità. Dalla gestione delle relazioni sindacali del capo del personale Massimo Demuru, duro senza mai perdere la tenerezza (e vabbè se è una citazione di Ernesto Che Guevara), ad alcune idee rivoluzionarie dello stesso Di Benedetto: da tre opere diverse in tre sere consecutive, modello mai visto a Genova e raramente nel mondo, che portò il Carlo Felice all’attenzione nazionale, all’idea di prendere Al Bano come interprete di una cavatina di un personaggio di un’opera il cui ruolo calzava a pennello proprio su Al Bano. I puristi del Carlo Felice la presero come una provocazione vergognosa, una lesa maestà della sacralità di quel palco (che veniva invece continuamente sfregiato proprio da alcuni dei difensori dell’intangibilità del palco), ma sarebbe stata una scelta che, a costi ridotti, avrebbe dato visibilità e sponsorizzazioni al teatro. Quello di cui il Carlo Felice aveva bisogno come il pane.
Insomma, per gestire questo teatro, serve genialità. Di Benedetto ce l’aveva. Non ce l’hanno i teorici dei commissari da Roma e i gestori della cultura affidata ad assessori, superconsulenti e consulenti dai ruoli indefiniti e dai risultati ancor più indefiniti, tranne che si vogliano definire tali filmati come quello realizzato in occasione del Salone Nautico e trasmesso in piazza De Ferrari a ciclo continuo. Posso dirlo? Se c’è passata davanti una scolaresca, hanno tutto il diritto di fare una class action e di rivolgersi al telefono azzurro. E bene ha fatto l’Ucina a lamentarsi: a Milano stendono tappeti rossi in occasione delle fiere, noi facciamo il filmato con le solite facce e ce ne vantiamo pure. Salvo poi avere la superconsulente fortemente voluta da Marta Margherita Rubino che dichiara al Secolo XIX che il Galata Museo del Mare è chiuso e che lei non è l’assessore. Falsa la prima circostanza, fortunatamente vera la seconda. Anche se non è che Ranieri faccia di meglio.
Per la rivoluzione del Carlo Felice servono facce nuove, gente che abbia il coraggio di smontare i sepolcri imbiancati, gente che non abbia paura di parlare di mercato anche quando si parla di cultura. Ricordo, lo scorso anno, una polemica che feci da queste colonne contro due commentatori del Lavoro-La Repubblica che si opponevano ai concerti di musica leggera e ai musical al Carlo Felice. E leggo, con piacere, sempre sul Lavoro-La Repubblica di questi giorni due interventi di Matteo Lo Presti, che propone il modello dell’Auditorium di Roma, dove la cultura è sinonimo di vita, e del coordinatore regionale del Pdl Michele Scandroglio che arriva a ipotizzare l’uso della struttura anche per sale cinematografiche e galleria commerciale.
Bestemmie? Secondo me, sono parole sacre. Perchè permetterebbero la vita del teatro lirico, come le trovate di Di Benedetto. Sono i talebani della purezza del teatro lirico, quelli che uccidono, lentamente, giorno dopo giorno, il Carlo Felice.
Ultimo appunto sul taccuino, la splendida lettura del Don Giovanni - riscritto per la serie Save the story, dedicata ai bambini e ai ragazzi - fatta sabato pomeriggio da Alessandro Baricco sul palco del teatro Modena.

Un’ora e un quarto di spettacolo travolgente e affascinante, capace di avvicinare al capolavoro di Mozart e Da Ponte anche coloro che non sono mai entrati in un teatro lirico. Lontano dai sepolcri imbiancati, dai convitati di pietra e dai Commendatori dell’intangibilità della lirica, che rischiano di uccidere il teatro dell’Opera. In nome della sua purezza.

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