Con la morte di Caro Fruttero scompare una figura importante dell’editoria e della cultura italiane. Fruttero era celebre per il successo arriso ai suoi gialli, in anni in cui il genere, ancora non del tutto riscattato dai saggi di Eco, era ancora colpito dallo stigma della volgarità o, nella migliore delle ipotesi, del semplice passatempo. Anche Sciascia, certo, scriveva gialli, ma era riuscito a permearli di ossessioni metafisiche e rovelli sul potere che li elevavano. Fruttero non ne sentiva il bisogno: assieme a Lucentini, conosciuto già nel 1951, aveva stabilito un fecondo sodalizio dove il giallo si mostrava per ciò che era, e difendeva i suoi diritti con ciò che solo molti anni dopo, in un’epoca meno massimalista, sarà identificato come grazia, onestà artigianale e sensibilità nei confronti di una società in via di arricchimento che di lì a poco tutti avrebbero chiamato postmoderna.
La «ditta» - così gli addetti ai lavori si riferivano a F&L - raggiunse la grande notorietà in particolare con La donna della domenica, un poliziesco che Luigi Comencini trasformerà in un film con Marcello Mastroianni e Jacqueline Bisset. La donna della domenica fu uno dei maggiori successi editoriali dell’epoca e in fondo avvicinò gli italiani a una città, Torino, nota grazie ai libri di storia e all’industria automobilistica, ma in realtà poco conosciuta. A rileggerlo oggi, il romanzo anticipa in modo impressionante il clima degli anni ’80, il che dimostra che i geni hanno forse la capacità rabdomantica di prevedere il futuro, ma gli scrittori di successo hanno spesso quella di incubarlo.
Non c’era, bisogna ribadirlo, solo il giallo nella vita di Carlo Fruttero. Si pensi alla sua attività di «liberatore» di un altro genere al centro di mille sospetti come la fantascienza, e alla sua lunga direzione, sempre assieme a Lucentini, della collana Urania di Mondadori, che durò dal ’61 all’86. L’attenzione per la fantascienza, come pure le traduzioni di grandi scrittori (Becket, Salinger, Fejtö), mostrano il legame fra passione, professionalità e modestia che lo stile di vita dell’uomo Fruttero, prima dei suoi libri, non ha mai cessato di testimoniare.
Dopo la morte di Lucentini, dieci anni fa, e la difficile elaborazione del lutto, Fruttero riuscì a tornare a scrivere soltanto con difficoltà, ma con esiti ammirevoli. Il recente volume autobiografico Mutandine di chiffon ne è un esempio. Già il titolo è un capolavoro di ironia: con malizia capovolta, e un piccolo sberleffo alle reazioni pavloviane del pubblico, le mutandine della copertina non trovano alcun riscontro nel contenuto del testo; lasciando invece spazio per una scelta tanto selettiva quanto garbata di ricordi, con molti aneddoti e nessun pettegolezzo. Perché Fruttero del pettegolo aveva, secondo alcuni, l’aria: ma solo quella. Qualche anno prima, nel 2006, il suo romanzo giallo Donne informate sui fatti aveva animato il Campiello, anche perché la posizione in cui si venne a trovare l’autore implicava un capovolgimento di sorte che assomigliava ad una peripezia degna di un Sofocle sadico.
Fruttero si era trasformato in una sorta di linea immaginaria che rimane ferma mentre il resto del mondo si muove. Nonostante un passato così pieno di popolarità alle spalle, o forse proprio a causa di esso, lo scrittore aveva mancato il premio degli industriali veneti perché ritenuto autore troppo colto, e dunque indigesto per un pubblico che nel frattempo era diventato via via meno esigente. Franco Cordelli chiamò in causa l’ironia della sorte, ed aveva ragione: mentre il gusto per le tinte forti e la semplificazione della realtà dilagava senza incontrare alcun ostacolo, travolgendo anche la letteratura, i romanzi di Fruttero - sia i nuovi, sia i vecchi, ora opportunamente ristampati - rivelavano tutta la loro grazia, il loro charme, quasi la loro «classe».
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