Caro autore ti riscrivo... Così ti vendiamo un po’

Da Dante a Pasolini, passando per Foscolo, gli scrittori per diventare dei classici ne hanno subite di tutti i colori. Un saggio ci racconta quali

Romanzi fatti solo per vendere e preparati come fossero panini di McDonald’s. Editor che mettono le mani nel testo per renderlo più commerciale. Giurie di “saggi” che storcono il naso. Il mercato tiranno. Ancora: autori geniali dimenticati dagli editori, autori mediocri trasformati in geni dai medesimi. Autori geniali (pochi) che fanno le bizze (tante), autori mediocri (molti) che fanno anche loro le bizze (tantissime) per sembrare geniali. Quella sintetizzata qui, con dimentica brevità, potrebbe essere una silloge delle polemiche letterarie dell’ultimo decennio (o dell’ultimo mese). Quelle polemiche che fanno sempre urlare alla morte della letteratura. Volendo essere un po’provocatori, si potrebbe, invece, scrivere che la letteratura è proprio questa, e che quindi oggi è sanissima. A farci dire una cosa del genere, consci della boutade, è la lettura di Classici dietro le quinte di Giovanni Ragone (Laterza, pagg. 376, euro 20). Il saggio di questo “mediologo” è infatti costruito curiosando nel retrobottega della storia editoriale di molti dei capolavori della prosa e della poesia italiane. Leva i libri dei nostri grandi autori dalla bacheca dorata delle antologie e li cala nelle viscere dell’editoria dove sono nati. Viscere non molto più pulite di quelle di oggi.

Qualche esempio. Quando a fine quattrocento Dante finì in mano ai tipografi il testo della Commedia (non ancora divina) era tutt’altro che univoco. Il risultato fu che nella corsa alla stampa ne fecero scempio (basti il verso d’inizio di tre edizioni del 1472): «Nel mezo delcamin di noftra uita»; «El mezo del camin di noftra uita»; «El mezo del chamin di nostra uita». E non parliamo della selva che poteva essere «scura», «oscura», «obscura» o «schura». Ma lo scempio editoriale era solo uno dei possibili problemi.

Matteo Maria Boiardo, dopo aver avuto altre grane molto prosaiche (tipo un tentato avvelenamento) ebbe enorme fortuna con il suo Inamoramento de Orlando. Quanto ai guadagni invece: poca roba. Venne piratato a un ritmo che sembrerebbe mostruoso persino nell’epoca di Internet. Al suo libro mancava un finale? Pazienza: il mercato dei libri cavallereschi nel cinquecento sfornò per la sola Italia quasi 500mila copie. Non si potevano certo rallentare i torchi a causa di un finale! Ogni tipografo si inventò una “gionta” e i giontatori del Boiardo diventarono delle piccole star editoriali oggi giustamente dimenticate: Raffaele Valcieco, Nicolò degli Agostini...

Una guerra editoriale che fece venire in mente a Ludovico Ariosto di premunirsi per non finire vittima di questo far west letterario. Decise di fare tutto da solo e comprò una montagna di carta per stampare il Furioso. Risultato? Quello che di norma capita ai bravi autori che si credono anche bravi editori. Tre quarti delle copie gli restarono sul groppone.

Ma lo si può considerare un brutto risultato solo sino a che non si incappa nelle pagine che Ragone dedica a Ugo Foscolo. Le antologie raccontano il Foscolo morto a Londra in povertà. Mettono meno l’accento sul Foscolo costretto a leggere Vera storia di due amanti infelici ossia ultime lettere di Jacopo Ortis. Un pastone miserrimo di cui lui non aveva mai autorizzato la stampa. Provò la battaglia a colpi di diffide morali. Senza grossi risultati: il mercato tirava.

Se la cavò meglio il Manzoni con il suo Fermo e Lucia, trasformato negli Sposi promessi e poi nei Promessi sposi. L’editore Vincenzo Ferrario era competente e paziente. Lasciò che Manzoni si arrovellasse sul testo dal 1825 al 1827. Tre anni di fatica, angoscia e attese, subito bruciati: quando il libro uscì le edizioni pirata si moltiplicarono con rapidità folle. Tanto che la nuova edizione degli anni quaranta, quella risciacquata in Arno, serviva sì per andare a caccia della bella lingua ma anche per avere qualcosa di nuovo da buttare sul mercato saturato dai plagi (Manzoni si era rivolto alla polizia conscio che delle 60mila copie vendute della sua opera 59mila erano piratate).

Che dire invece del duo composto dall’editore Emilio Treves e dallo scrittore Edmondo de Amicis. Qui, infatti se c’è una vittima è il Treves. Geniale talent scout alla mercé di un De Amicis bizzoso che svicolava dai contratti, non rispettava scadenze e soprattutto vendeva titoli inesistenti. Treves credeva di avere in mano Cuore, ma in realtà correndo l’anno 1886 il capolavoro era solo annunciato e stava, in gran parte ancora nella testa di De Amicis. Così Treves, che aveva già iniziato una gigantesca campagna pubblicitaria ed era sull’orlo della disperazione, fu costretto a un feroce “corpo a corpo” di missive per ottenere che il libro fosse in libreria in coincidenza con l’apertura delle scuole. E se non altro almeno in questo caso gli introiti furono tali da fare dimenticare a entrambi le arrabbiature (salvo poi litigare per la divisione dei medesimi). E l’elenco potrebbe tranquillamente continuare: Carlo Emilio Gadda prometteva i suoi lavori a più editori contemporaneamente, Livio Garzanti costrinse Pasolini a purgare i suoi Ragazzi di vita... Ma sarebbe inutile sciorinare altri casi (ben raccontati da Ragone). Limitiamoci a dire: polemica dopo polemica, pirateria commerciale dopo pirateria commerciale e plagio dopo plagio la letteratura va come è sempre andata.

E se qualche lettore osservasse: «Ma se fosse rimasto solo l’affarismo e il genio fosse andato perso?». Le risposte sono solo due. Una tranchant rubata ad un titolo di Nick Hornby: «Shakespeare scriveva per soldi». La seconda più complessa: «Devono dircelo i critici...». Ma i critici ci riportano all’inizio del pezzo.

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