Caro Celentano, perché non torni a farci sognare?

Possiamo essere d’accordo che Milano è irriconoscibile, come razzola Celentano. Ma rispetto a quale Milano? Quella del dopoguerra, del boom, della «Milano da bere», di Tangentopoli? O semplicemente quella dei suoi vent’anni che, come tutti sanno, è comunque la stagione migliore della vita?
Dice che la città non è più quella, che è diventata un mostro; che i suoi padri-amministratori sono dei dottor Frankenstein; che gli architetti sono dei folli; che salire con le torri di vetro e acciaio verso l’alto è un crimine. Ma quando lo dice, Celentano non dimostra solo di essere uno spirito opportunisticamente anti-moderno, un rivoluzionario paradossalmente conservatore o un passatista, come lo ha bollato Formigoni. No. Dicendolo, Celentano dimostra di non essere più un sognatore. Che, per un artista, è la peggiore delle derive.
È vero: il sogno prometeico di dominio può, a volte, partorire mostri. Ma senza quel sogno, quella tensione, l’uomo è destinato a rinunciare alla sua stessa essenza: osare. E osare significa superare; andare al di là; andare più in alto. Senza il coraggio di osare non si sarebbero innalzate le cattedrali gotiche in un tempo, quello medievale, in cui le necessità materiali erano altre rispetto a un gigantesco tempio di marmo per pregare; e senza il coraggio di osare negli anni Sessanta non si sarebbe innalzata una lama luminosa alta 120 metri che, oggi, è uno dei simboli non solo di Milano, ma dell’Italia del boom: la Torre Pirelli.
E senza il coraggio di osare - rimanendo nel campo nell’arte, ma passando dall’architettura allo spettacolo - mai un ragazzo nato al numero 14 di via Gluck avrebbe potuto insegnare all’Italia che qualcosa nel mondo della musica (e del costume) stava cambiando.

Eppure, molti settantenni, allora, vedendolo dimenarsi sul palco dicevano che quel ragazzo era un incrocio tra un uomo e una scimmia. Un mostro.
No. Celentano non è apocalittico. Né passatista. Né noioso. È molto peggio. È invecchiato.

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