Caro Marinelli,
anche se convinto che scrivendole questa mia le procurerò ulteriore immeritata pubblicità, non mi sento di fare altrimenti dopo aver letto la sua lettera aperta a Pietrangelo Buttafuoco, sulle pagine di uno dei quotidiani che forse più mi è caro, quello fondato e condotto per molti anni con maestria dal compianto Montanelli.
Spero abbia notato che nonostante i due piacevolissimi giorni passati insieme per la finale della 44ª edizione del Campiello, ho smesso di darle del tu. Questo è perché ci tengo a prendere da lei le dovute distanze per come, in quelle poche righe, abbia saputo offrirci una straordinaria dimostrazione di ipocrisia. Lei si nasconde dietro il quinto posto di un suo collega di competizione, Buttafuoco appunto, che tra laltro stimo come pochi, prima ancora come giornalista che come scrittore, per sfogare la sua rabbia, la sua frustrazione, nell'essere arrivato nuovamente secondo nel nostro prestigioso premio Campiello. Guardi Marinelli, è sempre così; quando si decide di affrontare una competizione cè uno che vince ed altri che perdono. Ed anche cè uno che arriva secondo. Come lei.
Invece di prendersela con chi a suo dire non ha colto nel suo libro quelle straordinarie qualità da farla vincere a mani basse, poteva considerare questo, sempre ottimo, risultato, come un ulteriore stimolo a migliorare, per potere negli anni a venire, anche vincere. Poteva anche interpretare la mia telefonata, che chi mi conosce sa bene non può essere stata «confusa e balbettante», un segno di cortesia e stima, evidentemente mal riposta.
Mi dica Marinelli, era stato il suo medico che l'aveva obbligata a partecipare al nostro premio Campiello? Vede Marinelli, è proprio questo il punto; lei come molta parte dei suoi colleghi, professori, editorialisti, registi, autori, attori, sceneggiatori, scrittori (almeno questi sono i «mestieri» che le vengono attribuiti in una sua recente biografia) non avete l'abitudine alla competizione, essenza vitale e presente quotidianamente nelle nostre aziende, obbligate, pena la morte, la scomparsa, a competere più con la spada che con la penna.
Ed è questo, come ho spesso ripetuto, che tanto mi piace del nostro premio Campiello. Avere il coraggio di sottoporre il proprio «fare» al giudizio non solo di autorevoli esperti, che possono essere spesso influenzati o influenzabili dalle loro esperienze, e ci siamo capiti, ma anche a quello di una giuria che proprio perché «popolare» rappresenta la nostra società tutta, e quindi la vera prova del nove ai vostri lavori. E non intenda quel «popolare» come un diminutivo; il popolo siamo io, lei, tanti altri, responsabili di crescere ed orientarci, capaci di arricchirci culturalmente, anche grazie ai libri che scrivete, che ci fanno pensare, riflettere, e qualche volta divertire.
Ti lascio il meglio di me è il titolo del suo libro arrivato secondo; ecco, Marinelli, con quella lettera a Buttafuoco, dove definisce le vostre opere troppo barocche e complesse per la maggioranza beduina dei salotti italioti (che immagino sia italiani ed idioti) che contano, con quella lettera, ho la netta sensazione che di lei invece ci abbia lasciato proprio il peggio.
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