Caro Silvio, dopo la Libia scusiamoci coi meridionali

Davanti al Parlamento libico, Berlusconi si è messo la mano sul cuore e ha domandato perdono per le violenze commesse dal colonialismo italiano. È stato un gesto forte e coraggioso, praticamente unico nel panorama dei rapporti internazionali. Per fortuna sono poche le situazioni analoghe di cui l’Italia moderna si debba scusare e il Presidente potrebbe ripetere il bel gesto in Etiopia e in Slovenia, e potremmo considerare chiuse, almeno dal punto di vista morale, certe vergogne che macchiano la nostra storia. Non sarebbe neppure faticoso, soprattutto se paragonato a cosa toccherebbe ai governanti di altri Stati per mostrare la stessa maturità e correttezza: alcuni di loro dovrebbero mostrarsi contriti nei Parlamenti di mezzo mondo.
L’episodio di Tripoli serve anche a squarciare una stratificazione di omissioni e di menzogne che è stata stesa sulla nostra storia più recente e a rendere giustizia a tutti i coraggiosi che si sono battuti per fare emergere la verità, anche a costo di intaccare certezze mal riposte e sconquassare miti artefatti. In questo caso specifico non si può non essere grati ad Angelo Del Boca, che da decenni si sforza di sollevare dolorosi coperchi e raccontare verità che non possono che essere liberatorie per la coscienza collettiva.
Berlusconi però non può - non fosse altro che per rintuzzare le illazioni collegate alla coltivazione di personali interessi televisivi - fermarsi alla Libia, e neppure agli altri Paesi citati. Deve trovare il modo di presentare le scuse dello Stato italiano anche a tutti quegli italiani che hanno sofferto per la sua unificazione, non solo quelli che sono morti «per» (cui la gratitudine nazionale è stata abbondantemente espressa) ma anche quelli che hanno sofferto «a causa» dell’unità. Sarebbe un gesto di straordinaria civiltà con cui celebrare degnamente il 150° anniversario del Risorgimento, altro che finanziamenti a pioggia e melense cerimonie di palazzo!
Gli Stati Uniti hanno da tempo esorcizzato antiche divisioni, forse anche più laceranti e sanguinose delle nostre, ripercorrendo con serenità la storia del genocidio dei pellerossa e della Guerra Civile: oggi non c’è più alcun pudore o vergogna a riconoscere ragioni e torti, a confrontarsi serenamente sugli avvenimenti anche più dolorosi e sui fatti più ignobili. Contano anche le immagini: non ci sono solo i volti di Mount Rushmore, ma anche un ciglione del South Dakota trasformato nel profilo di Cavallo Pazzo e i capi sudisti Jefferson Davis, Robert Lee e «Stonewall» Jackson che emergono da un grande costone roccioso in Georgia. Sarebbe bello che si riconoscessero il valore e i sacrifici dei vinti del Risorgimento, dei soldati napoletani di Civitella e Messina, dei «briganti» massacrati in nome di una fratellanza imposta con le baionette, dei lombardi e dei veneti che hanno indossato fino all'ultimo l’uniforme del loro Imperatore, degli esuli per coerenza, dei cannoneggiati da La Marmora a Genova, da Cialdini ad Ancona, fino alle vittime milanesi di Bava Beccaris.


Anche senza scolpire un Cattaneo di cento metri sulle rocce delle Prealpi o elevare un colosso a Beneventano del Bosco, un bel modo civile di onorare la ricorrenza sarebbe proprio quello di affrontare la storia senza censure, senza la triste (e pericolosa) preoccupazione di dover per forza mettere tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra. Ecco, Presidente, il modo più bello per celebrare il Risorgimento: raccontarlo davvero.

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