Carrère e il faldone "V13" ovvero cronaca dell'orrore

Per quasi due anni lo scrittore ha seguito tutte le udienze. E alla fine emette le sue sentenze

Carrère e il faldone "V13" ovvero cronaca dell'orrore

Da specialista quale è di vite altrui, la prima domanda che si fa è sempre la stessa: «Perché sono qui?». E con questo intende: «Chi me lo ha fatto fare?». Ed è così che incomincia anche l'ultimo saggio, o «cronaca giudiziaria» come cita il sottotitolo francese, di Emmanuel Carrère, V13, in uscita martedì per Adelphi (pagg. 267, euro 20, traduzione di Francesco Bergamasco), il racconto del processo del secolo al terrorismo islamico. «V» come venerdì, «13» come 13 novembre 2015, il giorno in cui Parigi fu attaccata dal commando jihadista di Salah Abdeslam, l'unico terrorista sopravvissuto di quella notte in cui i «combattenti dello Stato islamico» (così, durante il processo, si dichiarano quando gli viene chiesto «Professione?») si sono resi colpevoli di un massacro con 131 morti e 340 feriti tra il Bataclan, lo Stade de France e alcuni bistrot.

«Reggerò il colpo? Perché infliggermi questo? Non sono stato toccato dall'attentato, nessuno della mia cerchia lo è stato»: eccoci, tutti noi siamo già Carrère. Noi che il Bataclan lo abbiamo visto al notiziario, noi che 350 avvocati tutti insieme, tanti ne ha visti sfilare l'aula speciale della Cité, non li abbiamo mai sentiti arringare, noi che subito ricordiamo Norimberga, paragone che Carrère smonta dopo le prime tre pagine: «Là si giudicavano gli alti dignitari nazisti, qui figure di secondo piano, perché tutti gli assassini sono morti. Ma sarà comunque qualcosa di enorme, e di inedito». Qualcosa che ha prodotto ergastolo senza sconto di pena per il sopravvissuto del commando Salah Abdeslam e per uno dei pianificatori, Mohammed Abrini. Qualcosa che ha generato una cronaca in cui soltanto il cinismo di Carrère poteva orientarsi (basti la descrizione di Abdeslam e Abrini come sciacalli dello show business occidentale, i cui rapporti si fanno più tesi verso la fine del processo perché cercano di rubarsi a vicenda il ruolo di «vedette») e un volume forte come un'ossessione, in cui la fedeltà al dettaglio, per quanto macabro, nel descrivere sangue e lacrime fa da contrappasso alla pretesa di rigore storico, per cui se nella memoria accusatoria si è contraddittori sui massacri compiuti dall'Occidente non si può pretendere, secondo Carrère, giustizia per quelli jihadisti.

Una scatola bianca senza finestre, di 45 metri per 15, è lo spazio approntato per il processo nella Sala dei Passi perduti alla Conciergerie, sala che durante la Rivoluzione era l'anticamera della ghigliottina: può contenere fino a 600 persone ed è costata allo Stato francese 7 milioni di euro. Come racconta nella postfazione il vicedirettore del Nouvel Observateur, Grégoire Leménager, pare che proprio a Carrère sia venuta l'idea di chiudersi là dentro. Si mette in testa - fra i tanti reportage che avrebbe potuto scegliere di fare per il magazine, dopo quello sulla psichiatria infantile della Pitié-Salpetrière - di seguire il processo come si timbra il cartellino al posto fisso: per nove mesi ha mandato 7800 battute ogni lunedì alla redazione, sempre la stessa lunghezza (forse un paio di volte ha sforato le 8000, racconta Leménager), sempre la stessa scadenza, alla faccia dell'attualità del momento. A «giornalista perfetto» non si può dire di no: Carrère si è immesso nella maratona processuale con un taccuino rosso e un pass arancione, seduto nel loculo bianco, dal 2 settembre 2021 al 7 luglio 2022.

Scandito in tre parti, «Le vittime», «Gli imputati», «La corte», il libro acquista un senso soltanto alla fine, quando si comprende che le prime cento pagine sono quelle che ci restituiscono il rispetto di un Occidente straziato e fragile, cui non la Corte ridà dignità, né il processo, ma i morti, i feriti e i loro familiari: l'architettura della cattedrale giudiziaria occidentale che Carrère si propone di tratteggiare (paragona l'aula a una chiesa moderna, in cui si purgano le passioni e si compie la catarsi) vede i suoi pilastri nei corpi smembrati, che l'autore mette all'ingresso dell'inferno, non soltanto a memento, ma anche a monito.

Per questo va detto che questa cronaca non è per deboli di cuore. Definire atroci queste prime cento pagine è poco, ma è solo perché quei morti, descritti come sono descritti, ci accompagnano fino all'ultima pagina che possiamo reggere alle dichiarazioni dei terroristi e alle arringhe «anticolonialiste» della difesa.

Uno dei paragrafi della prima parte si intitola «17 frammenti di corpi» e inizia con il racconto della mattina successiva alla strage, il 14 novembre, in cui all'obitorio due vittime vengono scambiate: i genitori di una morta hanno la folle speranza di vedere la figlia viva e quelli dell'altra piangono la perdita. Chiamato a testimoniare, il capo della Morgue si giustifica dicendo che non gli era mai capitato di dover gestire una situazione del genere: «In poche ore arrivano 123 corpi interi e 17 frammenti di corpi». Lacerati, smembrati, crivellati da chiodi e bulloni («confetti di carne», vengono definiti più volte) che con il perossido di idrogeno hanno rinforzato l'esplosione: Carrère annota i tecnicismi e affianca a essi il ricordo di un uomo o di una donna, un corpo vivente, amato da qualcuno che siede accanto a lui nella scatola bianca come parte civile. Annota: «Resti umani ritrovati fino a 50 metri dall'epicentro dell'esplosione». Annota le parole di uno tra i primi inquirenti giunti sul posto, che dopo aver evocato l'immagine dei cellulari che squillavano tra i pezzi di denti e di ossa, racconta: «Quando abbiamo cominciato a evacuare i corpi, alcuni erano talmente impregnati di sangue, talmente pesanti che abbiamo dovuto metterci a carponi per trasportarli».

La parte dedicata agli imputati è quella centrale, sì - «Il processo è degli accusati», scrive Carrère - ma anche forse la più deludente. Lo dice da subito, l'autore: chi è, da dove viene, che cosa ha nella testa Abdeslam, è questo che Carrère cerca di capire mentre lo ascolta. Ma anche che cosa è diventato e che cosa ha nella testa l'Occidente, che mentre registra le dichiarazioni di Abdeslam e degli altri jihadisti, ne mastica il lessico per mostrare di averlo «assimilato». Così la menzogna davanti al giudice viene fatta ergere a «taqiya», la dissimulazione che negli jihadisti contemporanei - «che avanzano come sottomarini in una società che odiano e aspirano a distruggere» - è divenuta una seconda natura e in giudici e poliziotti un motore per la paranoia, come ne L'invasione degli ultracorpi. E se il «vedovo di una vita brillante», Abdeslam, come lo definisce Carrère, di fronte alla giornata «inutile» della testimonianza di Hollande, sa tacere, ma poi spara accuse stupefacenti («Tutto quello che dite su noi jihadisti è il risultato della lettura dell'ultima pagina di un libro.

Andrebbe letto dall'inizio»), è ancora una volta la maestria di un grande scrittore che riesce a smontarlo: «Le sue scuse sono sincere? E che importanza ha la sua sincerità? Mistero meschino: un vuoto abissale avviluppato nella menzogna, su cui ci si sorprende un poco, ritraendosene, d'essersi affacciati con tanta attenzione».

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